I risultati di uno studio sul comportamento delle cellule T – finanziato dal National Institutes of Health e pubblicato sulla versione online di Nature Immunology il 10 marzo 2013 – getta nuova luce sul funzionamento dei vaccini. Secondo i ricercatori dell’Università della California di San Francisco (UCSF), le cellule T del sistema immunitario coordinano le risposte alle malattie e ai vaccini, in un modo simile a quello usato dalle api per condividere informazioni sulle migliori risorse di miele disponibili. “Al mattino, ogni ape va in cerca di fonti di zucchero, poi torna all’alveare e attraverso una sorta di danza comunica alle altre api la posizione di ciò che ha trovato, aiutando l’alveare a decidere democraticamente quale sia – tra le tante – la miglior fonte individuata” ha dichiarato il ricercatore Matthew Krummel, professore di patologia all’UCSF.
Allo stesso modo, le cellule T raccolgono e diffondono informazioni essenziali per le proprie simili, contribuendo in tal modo a coordinare la risposta immunitaria nei confronti di agenti patogeni invasori. Il gruppo di ricerca ha scoperto che le cellule T vanno in ricognizione nei linfonodi e raccolgono campioni di elementi estranei (come vaccini, batteri o virus), dopodiché si incontrano tutte insieme durante quello che Krummel e la sua squadra hanno ribattezzato il “periodo critico di differenziazione” e che si verifica il giorno seguente all’esposizione agli agenti invasori. “Le cellule T si raggruppano per condividere informazioni, trasmettere ciò che hanno scoperto sul nuovo agente patogeno o sul vaccino, aiutando il sistema immunitario nel suo complesso a predisporre una risposta coordinata per contrastare i corpi estranei”, ha detto Krummel.
La scoperta è importante perché fa luce su un aspetto della medicina a lungo rimasta oscura, ovvero il funzionamento dei vaccini. “Sappiamo che rimangono efficaci per anni dopo la vaccinazione, ma non sappiamo perché. A quanto pare le cellule T di aggregazione svolgono un ruolo importante in questo processo”. Il team di Krummel ha scoperto che il periodo di differenziazione è essenziale per la formazione della cosiddetta “riserva di memoria”, il meccanismo con cui il sistema immunitario riconosce un patogeno a cui è stato esposto precedentemente, anche mesi o anni prima. “Senza la memoria a lungo termine, i vaccini sarebbe inutili”, ha detto Krummel. “Senza di essa, il corpo non sarebbe in grado di ricordare di essere stato esposto a un particolare patogeno, come il morbillo o la difterite, e non saprebbe come combatterlo efficacemente.”
In esperimenti di laboratorio sul funzionamento del sistema immunitario umano, gli scienziati hanno vaccinato i topi contro la listeria (un batterio comune che causa malattie di origine alimentare) e successivamente li hanno esposti ai batteri. I topi in cui il periodo di differenziazione si è svolto normalmente sono rimasti in buona salute, protetti da una infezione potenzialmente letale. Al contrario, nei topi in cui è stata impedita la differenziazione delle cellule T, il risultato è stato “lo stesso che si sarebbe avuto se i topi non fossero mai stati vaccinati” ha osservato Krummel.
Ovviamente Krummel mette in guardia dai facili entusiasmi perché ci vorranno anni prima che la sperimentazione si sposti dai topi di laboratorio agli esseri umani. Tuttavia, questo studio apre nuove prospettive di ricerca in immunologia. “Ora che sappiamo che c’è un momento condiviso in cui le cellule integrano le loro risposte, potremmo arrivare a progettare cellule in grado di prendere parte a queste “riunioni” e di indurre le altre a fare ciò che vogliamo che facciano, come spingere la risposta immunitaria in una particolare direzione, oppure rafforzarla in generale”. Diversamente, per le malattie autoimmuni, come il diabete o il lupus, Krummel ipotizza che si potrebbe inibire la formazione della riserva di memoria al fine di attenuare la risposta immunitaria. Per trattare il diabete, per esempio, si potrebbe riuscire a modificare le cellule immunitarie in modo che pur reagendo singolarmente all’insulina non riescano a farlo collettivamente, in maniera organizzata. Ciò indebolirebbe notevolmente l’effetto autoimmune”.