Gaianews

Lasciarsi alle spalle le tecnologie del XX secolo potrà bastare a salvare il pianeta?

Scritto da Paolo Ferrante il 12.08.2010

Fabbrica riversa gas inquinanti nell'atmosfera

Un facile dubbio che spesso viene alla mente di chi si occupa di informazione scientifica (ma non solo) è se la tecnica e la scienza moderne non abbiano causato più problemi di quanti ne abbiano risolti riguardo alla salvaguardia dell’ambiente.

Alcuni esempi che balzano subito alla mente sono l’utilizzo dei nuovi materiali nel secolo scorso, come i pannelli d’amianto per la coibentazione o la plastica, utilizzata in ogni tipo di utensile o componente, fino ad arrivare all’utilizzo dell’energia atomica per usi civili, che negli anni ’50 sembrava dover fornire all’umanità una fonte inesauribile di energia a costo quasi nullo.

Il caso del nucleare è stato un clamoroso esempio di come una tecnologia apparentemente senza controindicazioni di natura tecnica possa a lungo andare rivelarsi perdente. Oggi ci ritroviamo a considerare con rammarico gli enormi costi nascosti di questa tecnologia, che l’hanno da poco fatta diventare meno economica della produzione di energia dagli ancora costosi pannelli fotovoltaici.

Eppure i “conti con la calcolatrice” sembravano e sembrano a tutt’oggi positivi, tanto da spingere molti governi a riprendere la strada della costruzione di nuovi impianti con l’aumento del costo del petrolio, dopo un ventennio di costante decrescita del settore. Il governo italiano è in buona compagnia, visto che anche gli Stati Uniti e la Germania – ad esempio – hanno rimesso mano ai vecchi progetti di espansione nella produzione di energia dalla fissione nucleare.

Eppure Chernobyl è una ferita che non si rimarginerà, e che continua a ricordare che le cose possono andar male. Certo, la tecnologia sovietica era anni luce lontana da quella attuale. Certo, i reattori di terza generazione sono molto sicuri e ancor di più lo saranno quelli di quarta, eppure il calcolo dei rischi nella costruzione degli impianti nucleari contiene sempre un fattore ignoto, che non permette di farci dormire sonni tranquilli. Eventi naturali come gli incendi di questi giorni in Russia nei pressi delle centrali nucleari hanno risvegliato paure recondite in molti di coloro che c’erano durante i giorni (e le bugie) della nube radioattiva.

Ma anche un materiale apparentemente innocuo come la plastica, con la sua confortante ubiquità, può rivelarsi un cavallo di Troia, che nasconde morte di animali marini, inquinamento degli oceani per centinaia di anni e allarmanti contaminazioni dei cibi confezionati nella plastica (questo vale almeno per alcuni tipi di plastica, come il pvc).

La tecnologia del XX secolo ha portato – insieme agli enormi benefici, sia ben chiaro – molti guai all’umanità, ed oggi stiamo iniziando a pagare i conti aperti con la natura. Ma le future tecnologie sono in grado di garantirci un futuro esente da rischi? Forse no, se non capiamo perché così tante volte siamo stati ingannati dalle tecnologie che via via venivano presentate al mondo come una rivoluzione.

I sostituti di plastica, petrolio e nucleare

La plastica non è biodegradabile, ma esistono materiali naturali che lo sono e che, nel breve periodo, la sostituiscono. Teniamo bene a mente, a tal proposito, che la plastica deriva dal petrolio, quello stesso petrolio che non ha fatto dormire Obama per più di due mesi e che ha causato la più grave crisi ambientale degli Stati Uniti con l’incidente nel Golfo del Messico. Ebbene, la corsa ai nuovi materiali derivati dal mais, dalla soia e da altri prodotti agricoli è in pieno svolgimento. Sì, perché la scoperta del materiale perfetto è la scommessa dei grandi colossi del petrolchimico, che vogliono cavalcare l’onda dei nuovi materiali a suon di brevetti.

Eppure, i timori degli ambientalisti e di molti ricercatori è che l’uso dei prodotti della terra per la produzione di materiali di imballaggio possa creare gravi squilibri dei prezzi – ma non servono scienziati e ambientalisti, basta la buona vecchia legge della domanda e dell’offerta. Un innanzamento dei prezzi del grano, del mais e della soia potrebbero portare a gravi crisi umanitarie nei Paesi in via di sviluppo e a qualcosa di molto preoccupante, l’aumento incontrollato della deforestazione, dovuta al bisogno di nuovi terreni coltivabili per andare a controbilanciare l’aumento della domanda.

Qualcosa di simile è stato già notato in Brasile nella produzione di etanolo da canna da zucchero, un combustibile di origine naturale che viene usato per alimentare una buona fetta delle automobili brasiliane al posto di combustibili ricavati dal petrolio. Anche negli Stati Uniti e in Europa è in atto l’introduzione di combustibili “ecologici”, come il biodiesel, ed anche in questo caso si sono innescati movimenti di prezzi a livello globale. Già, perché non dimentichiamoci che nel mercato non ci sono solo i produttori e gli utenti finali. In un mercato globale ci sono gli speculatori, che scommettono sugli aumenti e sulle diminuzioni di prezzo senza troppo preoccuparsi delle conseguenze che queste oscillazioni avranno su intere nazioni.

Ma perché i combustibili come etanolo e biodiesel sono considerati ecologici? Con l’avanzare della tecnologia di costruzione dei motori, che prevede immissione di gas di scarico sempre meno inquinanti – pensiamo agli standard euro 4 (ed euro 5 di imminente introduzione) per i veicoli – il problema si è spostato su un gas apparentemente innocuo, l’anidride carbonica, che è già presente nell’atmosfera terrestre. Purtroppo la CO2 è un gas serra, il che significa che contribuisce all’aumento della temperatura del pianeta. Ebbene, la combustione di prodotti derivati dal petrolio immette nell’atmosfera anidride carbonica che è stata fissata nel sottosuolo milioni di anni fa, andando a contribuire direttamente al riscaldamento globale, mentre i prodotti agricoli rimettono in circolazione l’anidride carbonica che è stata fissata per effetto della fotosintesi durante la crescita del raccolto, anche se per far quadrare il bilancio bisognerebbe togliere dal conto l’energia che è stata spesa per far crescere le piante e per la trasformazione in combustibile dei raccolti.

Per fare le cose per bene, insomma, occorrerebbe sbarazzarsi dei motori a combustione interna e passare ai tanto attesi motori elettrici. Ma dove prendiamo l’energia da immagazzinare nelle batterie? E come facciamo a produrre batterie a basso impatto ambientale, facilmente riciclabili e con affidalibità e costi di produzione accettabili? Queste sono domande che dovranno trovare risposta il prima possibile.

L’energia pulita per eccellenza è quella prodotta dalle forze della natura come il sole, il vento, l’acqua e l’energia geotermica. Il futuro sembrerebbe appartenere a queste nuove fonti, anche se molti autorevoli ricercatori esprimono dei dubbi sulla possibilità di coprire le crescenti richieste dei tanti abitanti della Terra con la sola energia verde. I conti, dicono questi esperti, non quadrano. Se ogni essere umano volesse vivere con gli standard (e quindi con i consumi) degli abitanti degli Stati Uniti, potremmo già dichiarare la bancarotta, in quanto la Terra non avrebbe le capacità strutturali per far fronte ad una tale richiesta. Non c’è abbastanza acqua dolce, non ci sono abbastanza terreni agricoli, non ci sono sufficienti fonti di energia. Per non parlare dei cambiamenti climatici che comporterebbe anche solo un tentativo di far girare ogni cinese, indiano e africano in una Cadillac che consuma un litro di benzina per fare un paio di chilometri.

Il futuro non è solo nelle promesse della tecnologia, ma nei cambiamenti sociali e politici che la crescita della popolazione da un lato e l’aumento delle legittime richieste da parte delle nazioni più povere di vivere una vita dignitosa. Questo significa che ognuno di noi dovrà consumare meno, dovrà riciclare e dovrà ottimizzare l’uso delle risorse come l’acqua, la carta, la plastica, il suolo coltivabile, l’ambiente naturale. Anche i governi avranno il loro da fare: controllo della natalità per fermare l’aumento della popolazione mondiale, costruzione di infrastrutture per i trasporti pubblici, per la gestione dell’acqua (non a caso chiamato l’oro bianco) e per far fronte ai cambiamenti climatici. Ben vengano, dunque, le nuove tecnologie, ma rendiamoci conto che se non si attueranno cambiamenti profondi nel nostro modo di vivere, i nostri figli e nipoti andranno incontro ad un destino che non è troppo azzardato definire catastrofico. La salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo non è una velleità della sinistra radical-chic, come una vecchia concezione della politica ancora in molti paesi, non solo in Italia, sostiene. Essa va di pari passo alla nostra possibilità di restare cittadini del nostro pianeta, e questo è meglio che venga compreso in fretta.

© RIPRODUZIONE RISERVATA