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L’evoluzione nell’era dell’ingegneria genetica: intervista a Telmo Pievani

"La systems biology e molti altri campi delle scienze della vita ci insegnano oggi che la distinzione fra “naturale” e “artificiale” va messa in discussione. E che abbiamo bisogno di istituzioni serie, capaci di prendere decisioni democratiche e ponderate sulle scelte che vogliamo fare in ambito biotecnologico", Telmo Pievani

Scritto da Annalisa Arci il 30.01.2013

Negli ultimi anni la ricerca ha compiuto numerosi progressi nello studio del DNA e nella comprensione del ruolo che i geni giocano nell’evoluzione. La mappatura del genoma della Drosophila mauritiana conferma l’esistenza di “zone” del DNA in cui la variabilità cromosomica è più alta, il che significa che una mutazione che interviene in quell’area può portare a un vero e proprio sconvolgimento delle funzionalità espresse nell’organismo. L’ingegneria genetica saprà crescere per poter prevedere questi cambiamenti? E soprattutto, è possibile prevederli? Abbiamo posto queste e altre domande al prof. Telmo Pievani, uno dei massimi esperti di evoluzionismo professore di Filosofia delle Scienze Biologiche all’Università di Padova.

Telmo_Pievani

Un esempio di transizione evolutiva è quello che ha portato gli animali sulla terraferma. Lo sappiamo da un piccolo pesce d’acqua dolce (il Danio rerio o pesce zebra): il lungo processo che ha portato alla mutazione delle pinne in zampe nei tetrapodi – il primo gruppo di vertebrati in grado di uscire dall’acqua e di camminare sulla terraferma – si deve all’acquisizione di “nuovi” elementi di DNA che fungono da promotori nell’espressione di un gene.

Il pesce zebra è stato usato come modello nell’ambito della biologia dello sviluppo sia nell’ embriogenesi che nella morfogenesi; il campo di applicazione si è poi allargato alla genomica funzionale e alle potenzialità  applicative dei mutanti di pesce zebra per lo studio di patologie umane. Ciò è dovuto alla sua peculiare variabilità cromosomica. Esistono, infatti, delle regioni del cromosoma di questo piccolo pesce in cui l’ordine dei geni viene conservato come risultato della discendenza da un antenato comune. Ed è in queste regioni che si ravvisa un ponte  tra modelli di invertebrati (come ad esempio la  Drosophila melanogaster  e il Caenhorhabditis elegans) e i vertebrati  complessi, quali il topo e l’uomo.

Benché l’evoluzione sia visibile, nel suo complesso, solo a livello delle specie, sono gli individui a conservare le variazioni casuali più vantaggiose in relazione alle richieste dell’ambiente. E questo accade proprio attraverso la trasmissione dei geni che sono vere e proprie unità di variazione: infatti, senza la produzione delle variazioni che dobbiamo ai geni, l’evoluzione non avrebbe una materia per il cambiamento. Lo studio dei geni non solo aiuta a comprendere i meccanismi di selezione naturale, ma permette, in certa misura, di intervenire “artificialmente” in essi.

Posto che l’evoluzione ragiona per il bene degli individui, disinteressandosi tanto dei geni quanto degli ecosistemi in cui gli individui vivono, ci chiediamo se questi interventi di montaggio e smontaggio dei geni possano “interferire” con l’evoluzione. Ne parliamo con il Prof. Telmo Pievani, uno dei maggiori esperti a livello internazionale di evoluzionismo, che insegna Filosofia delle Scienze Biologiche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova.

Domanda.  La visione di Richard Dawkins identifica nel gene (e non nella specie o nell’individuo) il soggetto della selezione naturale. Queste nuove ricerche vanno necessariamente in questa direzione? O, meglio: è in queste “zone” del DNA, in cui la variabilità è massima, che si realizza la selezione (sottoforma di trasmissione di nuovi caratteri)?

Telmo Pievani. Dal “gene egoista” di Dawkins a oggi sono passati più di trent’anni. La selezione naturale agisce a più livelli, ma l’organismo (immerso in una popolazione) resta l’unità fondamentale del cambiamento evolutivo. Le zone del genoma a maggiore variabilità sono solitamente quelle meno soggette alla selezione naturale, cioè “neutrali” rispetto a funzioni adattative.

D. Se la spiegazione dawkinsiana fosse esaustiva gli esiti dell’evoluzione sarebbero già in qualche modo determinati. Dato che il numero di geni presenti in una cellula umana (circa 30.000) è meno del doppio di quelli presenti in una Drosophila, è sensato pensare che una spiegazione basata solo sui geni non riesca a rendere conto dell’infinita varietà del vivente?

T.P. Certamente. I geni sono il “pivot” della squadra, ma perché vi sia evoluzione e diversificazione gli attori in gioco sono molteplici. Le sorgenti di variazione (genetiche, epigenetiche, di sviluppo) sono molteplici. Quanto alle dimensioni dei genomi, dipendono da fattori diversi (duplicazioni, etc), ma non bisogna associare un “grande genoma” a una maggiore “complessità” della specie. Ciò che conta non è il numero dei geni, ma le loro relazioni e le loro regolazioni.

Drosophila

D. I geni intervengono come concause nella “costruzione della forma”. Questo processo non sembra essere totalmente deterministico: Darwin stesso parla di mutazioni casuali. Nella sua Introduzione alla filosofia della biologia (Laterza, 2005) i concetti di caso e necessità sono ampiamente studiati. È corretto dire che il caso – inteso come serie di cause sconnesse – produce il nuovo, mentre la necessità conserva l’adatto ed elimina l’inadatto attraverso la causalità lineare della selezione naturale?

T.P. Il caso ha un ruolo cruciale nell’evoluzione, in termini di mutazioni, di derive genetiche e di perturbazioni ecologiche su larga scala. Tuttavia, il processo nel suo insieme non è puramente casuale, perché agiscono anche regolarità e schemi ripetuti. Il mix di questi fattori produce una storia che non è né deterministica né casuale, piuttosto “contingente”: cioè imprevedibile a priori e irreversibile.

D. Una interpretazione indeterministica che si distingue dal gradualismo filetico del darwinismo classico è quella di Stephen Jay Gould. Il concetto di “vincolo strutturale”, inteso come causa non contemplata nei meccanismi ortodossi, definisce lo spazio delle morfologie possibili per una forma e motiva la ricorrenza di linee tendenziali nello sviluppo ontogenetico. La “traccia” nel Danio rerio esprime uno dei modi possibili in cui i vincoli strutturali agiscono?

T.P. L’importanza dei vincoli strutturali e di sviluppo era ben nota già a Darwin, che parlava di “correlazioni di crescita”. Oggi stiamo capendo le basi molecolari di questi vincoli, con i quali la selezione naturale trova di volta in volta compromessi accettabili. E’ una dialettica continua tra funzioni (influssi esterni) e strutture (vincoli interni). Né le une né le altre, da sole, bastano per spiegare l’evoluzione.

D. Possiamo dire che accanto alla necessità e/o ai vincoli strutturali abbiamo un nuovo “agente” che elimina l’inadatto: l’ingegneria genetica che tende a sostituirsi all’evoluzione biologica come motore del cambiamento. Dato il declino della biologia riduzionista dobbiamo attenderci che lo sviluppo della biodiversità sarà in futuro garantito da due agenti, uno dei quali artificiale?

T.P. Il trasferimento genico orizzontale è un fenomeno diffuso, più di quanto si pensasse, e in questo l’ingegneria genetica non fa altro che esplorare strade rese possibili dall’evoluzione naturale. La vera novità è che si tratta di interventi intenzionali, frutto delle nostre tecnologie. Per la prima volta l’evoluzione culturale retroagisce direttamente su quella biologica. La systems biology e molti altri campi delle scienze della vita ci insegnano oggi che la distinzione fra “naturale” e “artificiale” va messa in discussione. E che abbiamo bisogno di istituzioni serie, capaci di prendere decisioni democratiche e ponderate sulle scelte che vogliamo fare in ambito biotecnologico.

 

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  • Maria Sara Scalzi scrive:

    Complimenti anche da parte mia. Un articolo accattivante e semplice da seguire su degli argomenti complicati

  • francesco niccolai scrive:

    complimenti per la lodevole divulgazione scientifica in ambito gentico ad un popolo (in gran parte una plebe) che ignora anche l’esistenza del problema.