E’ stato scoperto che i batteri sono in grado di utilizzare la propria resistenza agli antibiotici per proteggere altri batteri vicini più vulnerabili.
La notizia di come un contesto microbico possa compromettere una terapia antibiotica è stata resa nota il 27 dicembre scorso sulla rivista PloS Biology da un gruppo di microbiologi dell’Università di Groningen, Paesi Bassi, in seguito ad una ricerca condotta in collaborazione con dei colleghi dell’Università della California, S.Diego.
A supporto del loro studio, i ricercatori hanno reso pubblico anche un video in cui si assiste alla sintesi della sperimentazione in laboratorio: due tipi di batteri stafilococchi, uno contrassegnato da una proteina fluorescente verde brillante, che esprime un gene di resistenza all’antibiotico cloramfenicolo; l’altro, composto da batteri Streptococcus pneumoniae, che appaiono neri e senza geni di resistenza.
In una coltura contenente antibiotico i batteri verdi cominciano a proliferare e a dividersi, mentre i batteri neri, inizialmente, non mostrano alcuna reazione.
Dopo un certo tempo, però, anche le singole cellule nere iniziano a dividersi e a crescere di numero, superando in breve le cellule verdi.
“Le cellule resistenti interrompono l’azione del cloramfenicolo, in pratica disattivandolo”, spiega il microbiologo Robin Sorg, autore principale dello studio. “Ad un certo punto, la concentrazione, a metà della crescita, scende sotto un livello critico e iniziano a crescere le cellule non resistenti”.
Qualcosa di simile era già stato osservato.
“Batteri resistenti alla penicillina possono secernere enzimi beta-lattamasi che neutralizzano l’antibiotico. Solo che, nel nostro caso, l’antibiotico viene disattivato all’interno delle cellule resistenti (i batteri verdi, ndr)”.
La scoperta è stata fatta usando la ‘microscopia time-lapse’, la tecnica che consente di scattare immagini a intervalli di tempo regolari, la cui successiva visione viene poi velocizzata, in modo che il processo, che nella realtà si svolge in tempi lunghi, risulta visibile in pochi minuti.
Questa tecnica è stata poi stata confermata con la modellazione al computer, realizzando un modello in cui viene seguita la polmonite nei topi.
“Nei topi abbiamo osservato che i batteri sensibili Streptococcus pneumoniae sopravvivono al trattamento con cloramfenicolo quando gli animali sono infettati anche con batteri resistenti.
Teniamo a precisare che i risultati hanno escluso un trasferimento del gene della resistenza”.
Questo dato è in linea con le prove cliniche, laddove batteri sensibili agli antibiotici sono stati talvolta ospitati in pazienti che erano stati trattati con antibiotici senza successo.
“Questo andamento aveva sempre stupito i medici”, afferma Sorg. “Ora, il nostro studio può fornire una spiegazione”.
“Secondo i nostri risultati, batteri sensibili possono sopravvivere più a lungo quando siano presenti batteri resistenti che, in sostanza, potenziano la resistenza di microrganismi simili”.
A questo punto c’è da chiedersi come si trasmette o si diffonde questa resistenza.
“E’ complicato”, risponde molto sinteticamente Sorg. “Riguardo la resistenza, sappiamo che si hanno risposte selettive da parte degli antibiotici. Tuttavia, non si comprendono appieno i processi né la rapidità di sviluppo di questa resistenza”.
Una cosa va messa in evidenza: durante l’esperimento, i batteri sensibili smettono di crescere, ma non muoiono.
“Molti meccanismi di soppressione indotta da antibiotici si basano sulla divisione delle cellule, o almeno su cellule con un metabolismo attivo”.
Quello che non sopprime i batterie, non li renderà forse più resistenti, ma certamente dà loro il tempo di compattare i geni della resistenza dall’ambiente in cui prosperano.
Questo passaggio fondamentale è un’informazione utile per i medici, in un trattamento con antibiotici.
“Sappiamo di dover usare questi farmaci con discrezione, ma forse dovremmo essere ancora più attenti di quanto abbiamo mai pensato finora”, avverte Sorg, che auspica un approccio personalizzato del farmaco; un trattamento in cui i microbi non patogeni presenti nel paziente vengano controllati in funzione dei geni resistenti, la cui presenza “farebbe aumentare il rischio di trasferimento di agenti patogeni” per dirla con Sorg.
La conclusione più ovvia, al momento, è che per evitare questo sviluppo della resistenza nei microrganismi, è importante utilizzare gli antibiotici il meno possibile e solo in presenza di una reale necessità.