La posizione e le caratteristiche della maggior parte del vulcanismo terrestre possono essere spiegate con due soli processi in grado di dar luogo alla produzione di magma.
E’ noto che il punto di fusione di una roccia dipende dalla pressione.
Il magma ad elevata temperatura che risale dal mantello verso la superficie terrestre, con il diminuire della pressione, diviene quindi sempre più fluido.
La presenza dell’ acqua, poi, abbassa il punto di fusione dei solidi, per cui anche le placche crustali, nei loro scorrimenti – essendo i fondali marini a diretto contatto con la massa d’acqua degli oceani – possono innescare un processo di fusione mentre si immergono, in subduzione, al di sotto di altre placche.
Questi due processi, in genere, spiegano sia la genesi dei vulcani lungo i bordi di una placca – come, ad esempio, accade per l’anello di fuoco del Pacifico o le creste delle dorsali oceaniche – sia la presenza di vulcani nei punti caldi (o hot spot), dovuti alla risalita del magma, come le Hawaii o Yellowstone, negli USA.
Tuttavia, nella storia della Terra esistono dei vulcani che non trovano collocazione nei due casi illustrati. E’ quanto accade per i vulcani situati all’interno degli Stati Uniti occidentali, lontani da punti critici come quelli descritti.
Un nuovo studio di Jianfeng Yang e Manuele Faccenda, ricercatori dell’Università di Padova, esamina una serie di eruzioni del passato difficilmente spiegabili, avvenute sia ad Est che ad Ovest del Giappone.
L’arcipelago giapponese si trova in una zona di subduzione, con il fondo del Pacifico che si immerge sotto le isole ed è la causa dei frequentissimi terremoti che avvengono in quella regione, nonchè di vette vulcaniche quali il Monte Fuji.
A mille chilometri di distanza ad Ovest del Giappone, nel Nord-Est della Cina, sono visibili i resti di un antico vulcanesimo; mentre, 600 chilometri ad Est, sul fondo dell’oceano sono presenti effusioni basaltiche molto più recenti.
Questi vulcani sono troppo lontani dal Giappone per essere spiegati con i modelli ‘classici’, descritti prima.
Sono state proposte quindi varie ipotesi, tra cui l’emissione di nuova acqua dalla placca di subduzione, dopo che questa è affondata ulteriormente nel mantello o processi relativi alla flessione della placca oceanica mentre si piega per iniziare la sua discesa.
Yang e Faccenda, dal canto loro, hanno proposto un’ipotesi che potrebbe spiegare il vulcanismo di entrambe le aree, e sarebbe applicabile anche ad altri luoghi della Terra.
Facciamo alcune considerazioni.
Tra le profondità di 410 e 660 chilometri, le proprietà del mantello cambiano, mentre si ha la formazione di minerali diversi, più stabili a pressioni più elevate.
Questa ‘zona di transizione del mantello‘ è stata individuata utilizzando l’energia sismica rilasciata dai terremoti, che agisce come una TAC per il corpo umano.
Sotto i vulcani ‘anomali’ di cui sopra, la zona di transizione appare insolita, forse perchè ci si aspetta che debba essere associata ad una certa quantità di acqua o roccia fusa.
Ma in che modo si esplica una correlazione con le eruzioni?
Nel nuovo studio, i ricercatori hanno scoperto che si potrebbe spiegare con l’inabissamento della placca oceanica che affonda, anche senza rilasciare acqua.
L’idea, invece, è che si abbia una sorta di ‘spremitura’ di acqua dalla roccia del mantello.
Nelle condizioni esistenti nella zona di transizione del mantello, la roccia di questo è in grado di trattenere una quantità d’acqua maggiore di quanta ne possa contenere quando è più superficiale o più profonda.
Questo significa che, spostando in su o in giù – sopra o sotto la zona di transizione – una porzione di questa roccia del mantello, si potrebbe ottenere un ‘rilascio’ d’acqua.
L’acqua rilasciata sotto la zona di transizione non è rilevante, dal momento che si sposta verso l’alto ma rimane intrappolata nella ‘spugna’ della zona di transizione.
Al contrario, l’acqua che viene rilasciata sopra la zona di transizione potrebbe contribuire alla produzione di magma e ad una spinta verso la superficie.
Tornando alla placca oceanica che sprofonda sotto il Giappone, si può ipotizzare che questa entri in contatto con la zona di transizione del mantello, rallentando la sua discesa e innescando un meccanismo compressivo che ‘strizzerebbe’ la roccia come una spugna.
Utilizzando una simulazione fisica, i ricercatori hanno scoperto che nel punto di incontro, la roccia della zona di transizione viene risucchiata verso l’alto anziché spinta verso il basso, passando ad uno stato fluido.
Se si confronta questo schema con l’ambiente attorno al Giappone, si ottengono delle aree di produzione di magma congruenti con le eruzioni ad Ovest, in Cina, e sul fondo del mare ad Est, in concordanza con la cronologia degli eventi, che darebbe come più antico il vulcanismo verificatosi ad occidente
La quantità d’acqua nella zona di transizione del mantello – che provenga da subduzione o altri processi di affondamento – non è certamente costante ovunque.
Questa considerazione spiega alcune ‘irregolarità’ che farebbero sì che i vulcani hanno origine in un punto specifico piuttosto che in un altro.
Questo processo dovrebbe verificarsi o essersi verificato allo stesso modo in altri luoghi nel mondo.
I ricercatori indicano aree del passato vulcanismo del Mediterraneo, in Turchia e in Iran come esempi dove non è presente alcuna subduzione oggi, ma ce n’era stata in passato.
Questo non può spiegare ogni vulcano situato nel bel mezzo di un continente – ci sono altri modi per produrre magma – ma è un’ipotesi attendibile, ordinata con previsioni verificabili, e
anche facile ad essere illustrata in un libro di testo.