I ricercatori sono riusciti ad osservare la luce delle più antiche galassie mai scoperte, nate fino a 13 miliardi di anni fa, quando l’Universo era vecchio solo poche centinaia di migliaia di anni.
Grazie ai telescopi Very Large Telescope dell’ESO e Hubble della NASA, i ricercatori di un progetto di ricerca guidato dell’italiana INAF ha effettuato la scoperta.
L’analisi di questi debolissimi segnali ha permesso agli scienziati di ricostruire alcuni processi avvenuti agli albori dell’Universo, come quello della ‘reionizzazione’.
Un gruppo di ricerca dell’INAF ha realizzato il primo accurato studio su un insieme di galassie distanti ben 12,9 miliardi di anni luce, tanto remote che la loro luce è stata emessa quando l’universo aveva solo il 5% della sua età attuale. Grazie all’analisi dei dati ottenuti con il Very Large Telescope ESO e con il telescopio spaziale Hubble i ricercatori italiani hanno ottenuto per la prima volta l’evidenza che questi oggetti così remoti sono ancora parzialmente avvolti nella “nebbia primordiale” composta da idrogeno neutro che ha permeato l’Universo per centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Le accurate misure hanno permesso anche di ricostruire per la prima volta l’evoluzione temporale del processo noto come reionizzazione, che circa 13 miliardi di anni fa ha dissolto quella “nebbia primordiale”. La scoperta è descritta in un articolo in corso di pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal.
Per ottenere questi eccezionali risultati, il team di scienziati ha intrapreso una lunga e complessa serie di osservazioni, condotte nell’arco di tre anni, che hanno coinvolto il grande telescopio da 8,2 metri del Very Large Telescope dell’ESO sulle Ande cilene.
Grazie ad esso è stato possibile ottenere le migliori osservazioni spettroscopiche delle più antiche galassie nell’universo, alcune delle quali già individuate dal telescopio spaziale Hubble. Osservazioni che hanno permesso di calcolare con precisione la loro distanza e la quantità di radiazione ultravioletta assorbita.
“Nel nostro lavoro abbiamo vestito un po’ i panni degli archeologi” commenta Adriano Fontana, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma, che ha coordinato il progetto di ricerca. “Con i telescopi a nostra disposizione siamo riusciti a gettare lo sguardo direttamente sul passato remoto del nostro universo e osservare la debolissima luce proveniente da galassie che si trovavano in epoche differenti dell’evoluzione cosmica”.
“Le galassie che abbiamo studiato sono il più numeroso e antico campione che oggi possiamo osservare” dice Laura Pentericci, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma, che ha guidato lo studio. “Osservando galassie meno distanti siamo abituati a vedere una tipica ‘firma’ di questi oggetti ricchi di stelle giovani, la cosiddetta riga Lyman-alfa dell’idrogeno. Quando abbiamo analizzato questi oggetti primordiali ci siamo accorti di come questa fosse molto più debole di quanto ci aspettavamo, o addirittura assente. La spiegazione più probabile è che essa sia stata letteralmente nascosta dalla grande quantità di idrogeno neutro che ancora permeava lo spazio: abbiamo stimato che in tale epoca, a soli 780 milioni di anni dal Big-Bang, questo elemento dovesse costituire dal 10 al 50 percento del volume dell’universo. Sappiamo che appena 200 milioni di anni dopo questo livello è molto più basso, con valori analoghi a quelli che osserviamo ai giorni nostri: sembra dunque che la reionizzazione sia avvenuta molto più rapidamente di quanto finora pensato”.
Fatta luce su ‘quando’ il processo di reionizzazione è avvenuto agli albori dell’universo, la naturale domanda che si sono successivamente posti gli scienziati è stata ‘cosa’ avrebbe prodotto questo fenomeno. La risposta non è ancora certa, ma i maggiori indiziati sono le prime stelle formatesi dopo il Big Bang. Tali astri erano decisamente differenti rispetto a quelli che popolano le galassie attuali. “Le prime stelle che hanno illuminato il cielo erano probabilmente molto più grandi, calde e luminose del nostro Sole” dice Eros Vanzella, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste, che ha partecipato allo studio. “Anche se la loro esistenza è stata relativamente breve – solo qualche milione di anni – la loro intensa radiazione sarebbe stata in grado di dissolvere la nebbia primordiale di idrogeno neutro che permeava l’universo primordiale. La radiazione emessa da alcune delle galassie che abbiamo osservato è insolitamente ‘calda’, cioè dominata da luce a lunghezze d’onda corte: questo fa pensare che possano ospitare al loro interno queste particolari stelle di prima generazione. Ulteriori osservazioni sono però necessarie per verificare questa ipotesi”.
Nel team che ha condotto lo studio, oltre Laura Pentericci, Adriano Fontana ed Eros Vanzella, hanno partecipato i ricercatori INAF Marco Castellano, Andrea Grazian, Kostantina Boutsia, Emanuele Giallongo, Roberto Maiolino, Paola Santini (Osservatorio Astronomico di Roma) e Stefano Cristiani (Osservatorio Astronomico di Trieste).