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Ipotesi diverse per i disturbi agli occhi degli astronauti

Scritto da Leonardo Debbia il 05.04.2018

 

A iniziare dalle prime missioni spaziali degli anni ’60 e ’70 è risaputo che la formazione degli astronauti richiede organismi sani, indenni da malattie, perfettamente funzionanti.

astronauta
La preparazione ai viaggi nello spazio prevede intensi esercizi di allenamento, sia fisico che psichico, per sostenere gli sforzi inconsueti da compiere in assenza di gravità.

Le immagini degli astronauti che rientrano sulla Terra dopo permanenze di qualche mese sulle stazioni spaziali mostrano evidenti problemi cui va incontro il loro fisico; ad esempio, i più eclatanti sono quelli della deambulazione, tanto che, all’arrivo, debbono essere trasportati a braccio o deposti su carrozzelle perchè assolutamente non in grado di camminare.

A gravità zero, i muscoli perdono forza, le ossa si decalcificano e la capacità di reggersi in piedi viene a mancare.

Un fenomeno, invece, di cui pochi sono a conoscenza e che affligge la maggior parte degli astronauti al rientro sulla Terra sono i disturbi alla vista che quasi tutti accusano, anche a distanza di tempo.

Si tratta di problemi variabili, non sempre presenti: si va da una generica riduzione visiva

all’annebbiamento della vista; dalla presbiopia alla miopia.

Gli esami clinici hanno evidenziato spesso modifiche morfologiche alla struttura dei loro occhi, sotto forma di strani rigonfiamenti nelle parti posteriori delle regioni oculari o la presenza di macchie nel campo visivo che compromettono la visione nitida; qualche volta temporaneamente, ma talora anche con esiti irreversibili.

Per diversi anni, la NASA ha studiato il fenomeno, noto come ‘sindrome neuro-oculare associata al volo spaziale’ o SANS (Space Flight-Associated Neuro-ocular Syndrome).

I primi studi indicavano come fattore determinante l’assenza di gravità che porterebbe i liquidi corporei a salire verso il cranio, andando ad aumentare la pressione sul nervo ottico e sulle parti posteriori dei bulbi oculari.

Uno studio più recente ha scoperto un collegamento tra deficit visivo e aumento di omocisteina nel sangue; una condizione questa che, laddove persistesse, esporrebbe al rischio di contrarre serie patologie cardiovascolari e che qualche scienziato addebita a eccessiva carenza di vitamina B.

Ultimo fattore, non trascurabile, è l’esposizione eccessiva ai raggi ultravioletti, che nello spazio non sono filtrati dall’atmosfera e possono provocare danni irreversibili alla rétina.

Oggi, utilizzando l’imaging della tomografia a coerenza ottica, un optometrista dell’Università di Houston ha quantificato alcune di queste modifiche.

I risultati dello studio sono stati riportati sulla rivista JAMA Ophtalmology.

“Abbiamo studiato i dati prima e dopo la missione di 15 astronauti e abbiamo rilevato cambiamenti nella morfologia degli occhi”, dichiara Nimesh Patel, che ha usato la tomografia a coerenza ottica – un test non invasivo, che offre immagini di sezioni trasversali della cornea e della rétina – verificando tre importanti cambiamenti.

“I risultati dello studio hanno nostrato che negli individui esposti a microgravità per un periodo di tempo abbastanza lungo, cambia la posizione dell’apertura della membrana di Bruch, la lamina sottile che divide la coroide dalla rétina; si nota un aumento dello spessore della rétina e un aumento delle pliche coroidali”, elenca Patel.

Alcuni di questi cambiamenti, tranne l’aumento delle pliche coroidali, sono tipici di pazienti con elevata pressione intracranica ma, confrontando questi effetti tra astronauti e soggetti che sulla Terra presentano le stesse patologie, si trova che nei primi mancherebbero altri sintomi specifici, quali cefalee croniche, tinnito sincronizzato con il polso e fattori di rischio quali l’obesità o l’uso di droghe, che invece sono presenti nei pazienti terrestri.

Anche se la causa specifica rimane di fatto sconosciuta, appare quindi abbastanza logico ritenere che i cambiamenti negli occhi degli astronauti siano, comunque, da imputarsi a spostamenti di fluidi orbitali e cranici che rimangono intrappolati nel vano del nervo ottico a causa della microgravità, determinando gonfiori e conseguenze descritte.

Difficile dire se i cambiamenti osservati possano considerarsi effetti a lungo termine, anche se si è propensi a crederlo.

In ogni caso, la comprensione della SANS ed il suo trattamento si renderà indispensabile per le future missioni spaziali, più lunghe e più complesse.

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