Come ha riportato qualche giorno fa The Economic Times of India, la Fabindia, nota azienda indiana che produce indumenti e merci varie, sta attraversando un momento delicato, nel tentativo di bilanciare le volontà degli artigiani locali e la missione di sostenibilità che aveva dato il via all’azienda, con quelle dei grandi neo-azionisti internazionali che stanno entrando in gioco. Louis Vuitton ha infatti da poco acquistato ufficialmente l’8% delle quote ed è pronto ad investire sull’azienda. Vedremo forse sari o kurta con le iniziali LV nei mesi a venire? Nel frattempo il direttore di Fabindia sta pensando di lanciare una pubblica offerta per i prossimi anni.
Fabindia possiede 162 negozi e outlet nel Paese, disseminati in più di sessanta città indiane, le cui merci e indumenti sono consegnate direttamente dagli artigiani locali, che provengono da 212 distretti indiani diversi. Gli artigiani hanno contribuito in modo decisivo a fare di Fabindia un marchio emergente, che ha raggiunto il valore di circa 5 miliardi di rupie, il doppio rispetto alle aziende concorrenti. Questi possiedono il 26% della quota, ripartita in 17 società, e ne sono anche i fornitori ufficiali. La società Louis Vuitton, che ha da poco acquistato l’8% della quota, è pronta a investire 1,2 miliardi nell’azienda, cosa che porterà Fabindia ad innalzare il suo valore, raggiungendo la soglia dei 14 miliardi.
Contemporaneamente, sul sito dell’azienda, si legge ancora: “Fabindia è la più grande piattaforma privata per la vendita di prodotti realizzati con tecniche tradizionali, competenze e processi basati sul lavoro manuale. Fabindia collega oltre 80 mila artigiani rurali al moderno mercato urbano, creando le basi per sviluppare abilità e impieghi rurali sostenibili, preservando le tradizionali manifatture indiane durante il processo di lavorazione. Fabindia promuove il capitalismo del territorio.” L Capital Asia, che fa parte del gruppo Louis Vuitton Moët Hennessy (LVMH), il più grande gruppo produttore di beni di lusso, ha comprato mesi fa l’8% delle quote della catena etnica indiana Fabindia dalla Wolfensohn Capital Partner. Ed è pronto a investire.
Ora, stando anche alle ultime notizie, ci si chiede se il capitalismo del territorio verrà mantenuto o se invece l’arrivo di aziende esterne non contribuisca a minare la stabilità del brand locale. In sostanza, il mercato globale si sta insinuando anche attraverso quello che era nato come uno sviluppo e una missione da compiere sul e all’interno del territorio? Come si vestiranno in futuro gli intellettuali di sinistra indiani? Chi leggerà la sigla LV su un kurta domanderà “è di Fabindia”? Cosa succederà ai prodotti, agli azionisti, ai lavoratori rurali, in breve all’equilibrio sostenibile che aveva dato il via all’azienda?
In un certo senso, ripercorrendo la storia di Fabindia e del suo kurta, il caratteristico camicione usato sia per la donna che per l’uomo, è di per sé una storia contraddittoria, come non di rado lo sono quelle indiane. Il marchio è stato fondato nel 1960 dall’americano John Bissell che venne in India per dare consiglio al governo su come poter dar vita a un mercato in cui le fabbriche manifatturiere di produttori e artigiani, dislocate in aree remote del territorio, facessero da protagoniste. L’americano effettivamente diede dei buoni consigli: i kurta del nuovo brand indiano, nati in modo sostenibile, sono stati acquistati da generazioni di studenti e non solo, in differenti combinazioni di colori e stili, dagli anni ’60 ad oggi, andando incontro al gusto di milioni di indiani disseminati nel vasto territorio. Non hanno mai contato né etichette, né logo, ma chi seguiva i passi di una certa “India pensante” era in grado di riconoscere a colpo d’occhio un kurta prodotto da Fabindia.
In pratica, se Louis Vuitton giocherà la parte dell’investitore arguto che si pensa possa essere, permetterà a Fabindia di restare così com’è. E anche il cuore liberale e di sinistra della moderna New Delhi forse non ne risentirà. Senz’altro Fabindia è una realtà in continua crescita, una realtà che il marchio francese potrà solo implementare, come sostengono dall’azienda. “Fabindia rimarrà Fabindia. E ‘uno dei marchi leggendari in India e non abbiamo intenzione di cambiare. Ma Fabindia è anche un business di successo mainstream e questo è il nostro modo di raccogliere i capitali” ha spiegato in un’ intervista al Guardian Prableen Sabhaney, portavoce dell’azienda.
Sicuramente la cosa più dura per William Bissell, figlio dello storico proprietario, sarà il bilanciare le istanze sociali e gli interessi economici. Il direttore si trova ora a dover conciliare gli interessi di due diversi tipi di azionisti, i poveri artigiani da una parte e un grande marchio di lusso internazionale dall’altra. Questi stessi artigiani che hanno aiutato la loro azienda a diventare una delle più ricche compagnie, non sono ancora azionisti Fabindia, ma Bissell dice che lo saranno un giorno, quando Fabindia diventerà pubblica. Nonostante le perplessità, Bissell è convinto che si potrà andare incontro positivamente alle aspirazioni di entrambe le parti: gli investitori d’oltreoceano non mineranno il lavoro degli artigiani locali ma anzi, li aiuteranno a dare più valore nel lungo periodo, facendo della compagnia un importante punto di riferimento, grazie ai nuovi capitali investiti che ne finanzieranno la crescita.
Altri non sono così sicuri del fatto che le due realtà possano essere in accordo. Se è stato possibile realizzare un buon equilibrio tra gli obiettivi sociali e il profitto, è stato perché gli azionisti dominanti, Bissell e la sua famiglia, si sono completamente allineati con la missione sociale della compagnia. La paura è ora che gli investitori entrino in gioco avanzando loro proprie richieste, diluendo il piano e le prospettive sociali e anteponendo a queste l’arricchimento ad ogni costo. L’obiettivo di Fabindia è ora quello di arrivare al 2015 con 350 nuovi negozi. Bissell ha detto: “C’è sete di affari sì, ma con integrità e buoni propositi. Non c’è dubbio che i nuovi investimenti si faranno incondizionatamente: ogni investitore intelligente capirà che se si eliminano gli intenti sociali dagli affari, si porterà via anche l’anima stessa del marchio”.