Cosa si prospetta per il Marocco? Un reale processo di democratizzazione o solo cambiamenti di facciata simili a quelli che precedentemente e ripetutamente hanno segnato la storia del Paese?
Ormai è noto ai più che il Marocco, a differenza dei vicini, è stato sede di manifestazioni di piazza e proteste che però non mai sono degenerate nella violenza. Queste sono iniziate subito dopo lo scoppio della rivolta in Tunisia lo scorso 17 dicembre, ma non hanno mai raggiunto la brutalità di queste ultime, né tanto meno di quelle egiziane o libiche.
Si potrebbe ben dire che il sovrano Mohammed VI sia intervenuto tempestivamente a placare gli animi del suo popolo invocando sostanziali riforme, ma le motivazioni sono più profonde e devono essere ricercate all’interno della società marocchina stessa, fedele e leale alla propria monarchia e al proprio sovrano. La legittimità del trono non è stata intaccata dalle manifestazioni di piazza organizzate dal movimento del 20 febbraio, che dall’inizio dell’anno non si sono ancora arrestate. I marocchini sono scesi in piazza per chiedere riforme concrete, contro la corruzione della classe politica e dirigente in generale, contro le discriminazioni culturali e di genere, contro l’assenza delle libertà fondamentali, di stampa, politiche, sociali.
La tempestività della riposta del monarca non può comunque essere negata. Mohammed VI è intervenuto lo scorso 9 marzo annunciando riforme e cambiamenti ed in particolare preannunciando la riforma costituzionale, la cui ultima è datata 1996. Il re ha nominato personalmente un comitato – commissione Mennouni, dal nome del presidente incaricato, il costituzionalista Abdelatif Mennouni- formato da 19 persone e addetto alla preparazione delle modifiche del dettato costituzionale. La commissione ha rispettato i tempi previsti e in 3 mesi ha elaborato il nuovo dettato costituzionale, risultato delle osservazioni dei diversi partiti politici, dei sindacati e dei movimenti della società marocchina. Il risultato di questo lavoro di intensa consultazione è stato presentato da Mohammed VI stesso lo scorso 17 giugno. Il sovrano ci teneva a sottolineare che la nuova carta istituisce una “monarchia costituzionale democratica” e riconosce il berbero come lingua ufficiale. Questa ultima modifica si inserisce in un tracciato storico datato 2001, anno in cui a seguito delle continue richieste della popolazione berbera, il sovrano, in occasione di un discorso pubblico dichiaro: “Io stesso sono per metà berbero. Non posso rinnegare una parte della mia cultura e della mia gente”. Inoltre sempre nel 2001 era stato creato e ufficializzato dal re in persona il 17ottobre l’Institut Royale de la Culture Amazigh (IRCAM) con il compito di proteggere e fare sviluppare la cultura amazigh (berbera), proponendo ad esempio le riforme necessarie per consentire l’introduzione del tamazight (lingua berbera) nel sistema educativo e nei media. È bene sottolineare, infatti, che una gran parte della popolazione marocchina – 40 % – faccia parte della cultura berbera e utilizzi il berbero come lingua primaria, ma nonostante questo l’attuale costituzione prevede che solo l’arabo sia la lingua ufficiale.
Con il riconoscimento dell’identità berbera, Mohammed VI ha dato risposta a un’istanza portata avanti da quasi due generazioni di militanti, oltre che sottolineare la specificità del pluralismo culturale marocchino, ma queste riforme non sono abbastanza per gli attivisti del movimento del 20 febbraio che continuano a protestare. “No a una Costituzione pensata per gli schiavi!” e “No alla Costituzione della dittatura!” recitavano i cartelli delle migliaia di persone scese domenica in piazza a Casablanca. Inoltre uno degli organizzatori della piazza di Casablanca, Aziz Yaakoubi ha dichiarato: “Siamo qui perché rifiutiamo questa costituzione, perché la carta lascia tutti i poteri nelle mani del Re che ha rifiutato di ascoltare la piazza”. “Questo progetto di riforma non basta, non ci permetterà mai di mettere la parola fine al sistema attuale, così il Marocco resterà una monarchia assoluta” ha aggiunto Ahmed Mediany, uno dei dirigenti locali del movimento.
Il movimento del 20 febbraio teme che si possa verificare quello che si è verificato in passato, proprio con l’ascesa al potere del giovane re Mohammed VI. Difatti, al periodo di dura repressione degli anni di piombo era seguito un periodo di distensione iniziato negli ultimi anni del regno di Hassan II e proseguito con l’arrivo del nuovo sovrano. Mohammed VI consapevole delle aspettative della popolazione e degli attori internazionali si era presentato come l’uomo del cambiamento, come il “re dei poveri” mostrando la sua volontà di eliminare le ingiustizie sociali e di combattere la corruzione. Ma le aspettative rimasero in gran parte deluse. Gli attivisti del 20 febbraio temono dunque un prematuro arresto del processo di liberalizzazione, così come è avvenuto 10 anni fa.
Soltanto il tempo potrà darci delle risposte. Per adesso si aspetta il primo luglio, data in cui è stato indetto il referendum popolare per l’approvazione delle modifiche della costituzione.