Se durante un ipotetico viaggio in Amazzonia, vi trovaste in piena foresta, con il vostro orologio fermo a causa delle pile scariche e il cellulare satellitare dimenticato in hotel, sareste ben felici di incontrare un altro essere umano, un indio locale cui chiedere l’ora. Rimarreste però sicuramente allibiti nel vedere che, alla vostra domanda – formulata magari in perfetto portoghese – il vostro interlocutore, anch’egli privo di qualsiasi strumento che ricordasse anche solo da lontano un orologio, alzasse un braccio verso un punto del cielo e, indicandolo, vi dicesse l’ora.
Non vi trovereste di fronte né uno stregone, né un burlone che volesse prendersi gioco di voi, ma di un indio che ‘parla’ la lingua Nheengatu.
Un nuovo studio, che documenta le pratiche linguistiche delle popolazioni dell’Amazzonia nord-occidentale, ha scoperto il metodo degli indios – insolito, per noi – di comunicare agli altri il concetto umano del tempo.
Lo studio, dal titolo ‘Grammatica modale ibrida? Indicazioni celesti per il riferimento del giorno a Nheengatu’, ha come autore Simeon Floyd, del Max Planck Institut di Psicolinguistica, nei Paesi Bassi (MPI), ed è stato pubblicato in questi giorni sulla rivista scientifica Language.
Floyd esamina come la lingua Nheengatu includa componenti sia uditive che visive per esprimere l’ora del giorno, anche in assenza di un sistema numerico o scritto per descrivere il trascorrere del tempo.
La lingua Nheengatu, nota anche come ‘lingua generale amazzonica’ è diffusa tra circa 30mila persone in un’area che comprende la foresta amazzonica del Brasile, della Colombia e del Venezuela ed è, di fatto, la lingua principale della popolazione rurale della zona, usata correntemente dalle varie tribù di indios per comunicare tra loro.
Con la lingua Nheengatu, per indicare il trascorrere del tempo, si indica il punto del cielo dove si ritiene che il sole si troverebbe in quel particolare momento della giornata.
In altri termini, il gesto equivale alla nostra risposta, esclusivamente verbale, ‘Sono le nove’ oppure ‘Sono le dieci’ alla domanda ‘Che ore sono?’.
Questa pratica amazzonica è interessante perché molti linguisti hanno ipotizzato che chi si serve di lingue che utilizzano solo suoni (lingue uditive) non sarebbe in grado di sviluppare anche un linguaggio visivo come quello delle lingue dei segni.
La pratica Nheengatu mostra come questo non sia necessariamente vero.
Quando gli esseri umani concepiscono una grammatica, si pensa a categorie come sostantivi, verbi, aggettivi e avverbi che gli individui usano nella comunicazione con gli altri per mezzo della voce.
La ricerca, che descrive le popolazioni che usano la lingua Nheengatu, sottolinea che non sempre è così, e che in alcune lingue è possibile comunicare alcuni concetti combinando i movimenti delle mani e del corpo – la gestualità – con il discorso ‘parlato’, in modo sistematico.
In questo caso, gli elementi visivi hanno un ruolo paragonabile a quello di solito interpretato dagli avverbi parlati.
Le espressioni fisiche Nheengatu sono il tipo di linguaggio visivo che ci aspettiamo di vedere nelle lingue dei segni, ma per le lingue parlate è spesso scontato che tutte le parole possano essere udite, e che i gesti che accompagnano il discorso siano un qualcosa in più, un accessorio, dei significati periferici, e non invece le informazioni principali del discorso.
Queste pratiche, osservate in poche comunità dell’Amazzonia, hanno il potere di cambiare l’approccio degli studiosi ai modi in cui il linguaggio viene espresso, dimostrando che gli esseri umani non debbono necessariamente scegliere tra parlare e usare segni, ma possono fare entrambe le cose contemporaneamente.
La lingua Nheengatu è solo uno dei tipi di combinazione del linguaggio parlato e visivo, che alcuni linguisti stanno cominciando a sospettare possa essere più comune di quanto ritenuto finora, dato che storicamente molte lingue sono state studiate solo sulla base di parole scritte e registrazioni audio, mentre le future analisi di registrazioni video potrebbero trovare nuovi e inaspettati tipi di combinazioni della lingua parlata e visiva mai osservate prima d’ora.