Sappiamo che il cambiamento climatico ha un impatto sui processi che avvengono sulla superficie terrestre, quali l’erosione e le fluttuazioni dei livelli del mare.
Ma i processi fisico-chimici di superficie possono influire a loro volta sull’attività vulcanica?
Questo è stato l’interrogativo posto dai geologi dell’Università di Ginevra (UNIGE, Svizzera), dell’Istituto di Scienze della Terra ICTJA-CSIC di Barcellona e delle Università di Orléans e ‘Pierre e Marie Curie’ di Parigi.
I ricercatori, in uno studio comune, hanno analizzato i dati vulcanici durante la crisi di salinità del Messiniano nel Mar Mediterraneo, allorchè lo Stretto di Gibilterra si chiuse e il Mediterraneo rimase temporaneamente isolato dall’Oceano Atlantico.
Avendo riscontrato un notevole aumento dell’attività vulcanica durante quel periodo e simulando in laboratorio vari scenari, gli studiosi hanno concluso che l’aumento dell’attività vulcanica potrebbe essere spiegato solo con l’evaporazione pressoché totale del Mediterraneo.
Questi risultati, pubblicati sulla rivista Nature Geoscience, mettono in luce l’influenza che i processi avvenuti in superficie – in gran parte controllati dal clima – ebbero sull’attività vulcanica.
E’ noto che lo Stretto di Gibilterra si chiuse, sia pure per un certo lasso di tempo, durante il Messiniano (dai 5,96 ai 5,33 milioni di anni fa) e che il Mediterraneo rimase un bacino isolato dall’Atlantico.
Fino dagli anni Settanta del secolo scorso erano stati rinvenuti strati di sale spessi diverse centinaia di metri sul fondo marino del Mediterraneo e l’unica spiegazione per la loro formazione poteva essere data dalla mancanza di comunicazione e relativi scambi di acque tra Mediterraneo e Atlantico.
I geologi hanno scoperto anche grossi canyon subacquei risalenti allo stesso periodo, scavati dai fiumi che attraversavano la terra emersa che oggi costituisce il fondale, suggerendo che, all’epoca, il livello del mare fosse molto più basso.
Questo scenario si configura con un’intensa evaporazione marina e con l’incisiva disgregazione geografica e climatica di tutto il bacino.
Un gruppo di geologi, sotto l’égida della UNIGE, ha fornito nuove prove di questa enorme evaporazione del Mediterraneo, evidenziando la pesante concomitanza dei processi di superficie sull’attività magmatica.
“Quello che accade sulla superficie terrestre, ad esempio un abbassamento del livello del mare, induce ad un cambio della pressione in profondità e questo può avere senza dubbio delle ripercussioni sulla produzione di magma”, afferma Pietro Sternai, ricercatore di Scienze della Terra presso l’UNIGE.
Considerando che la crisi di salinità sia stata in grado di generare questi cambiamenti della pressione, i geologi hanno preso a studiare i cambiamenti dell’attività vulcanica di quel periodo, lavorando all’ipotesi che il Mediterraneo fosse effettivamente ‘scomparso’.
Quando si ha un’eruzione e nasce un vulcano, il magma si raffredda sulla superficie terrestre e i minerali cristallizzano. Sulla base di queste testimonianze di attività vulcanica, gli scienziati sono stati in grado di stabilire che tra 5,9 e 5,3 milioni di anni fa nell’area mediterranea si verificarono ben 13 eruzioni.
Questa intensa attività è più del doppio dell’attività media, che è di circa 4,5 eruzioni su un arco temporale più lungo di quello in cui avvenne la crisi di salinità.
Perché si raggiunse un valore così elevato?
“L’unica spiegazione logica”, suggerisce Sternai, “è l’ipotesi che il mare sia stato prosciugato, dato che questo è l’unico evento abbastanza eclatante da alterare la pressione terrestre e la produzione magmatica in tutto il bacino del Mediterraneo”.
Per provare che il Mediterraneo si sia effettivamente prosciugato, i geologi si sono avvalsi anche di modelli numerici
Sono stati quindi simulati in laboratorio il carico e lo scarico del peso dell’acqua e del sedimento durante la fase di ‘secca’ del Mediterraneo.
Quindi sono stati calcolati i cambiamenti della pressione in profondità e l’effetto sulla produzione di magma.
Sono stati ricostruiti due scenari: il primo, considerando sia avvenuto un drastico abbassamento del livello del mare; il secondo, escludendo invece l’evaporazione della massa d’acqua.
“Le simulazioni hanno mostrato che l’unico modo per tenere conto dell’aumento di attività vulcanica è che il livello del Mediterraneo (e quindi il suo peso) sia diminuito di due chilometri di profondità”, spiega Sternai, commentando: “Immaginiamo come fosse divenuto il paesaggio!”.
Oltre a provare il prosciugamento del Mediterraneo, la ricerca dimostra anche l’impatto dei cambiamenti climatici sulle profondità terrestri attraverso la produzione magmatica, l’erosione e l’idrologia che, a loro volta, modificano la pressione sugli strati profondi.
“Conoscevamo l’influenza del vulcanesimo sul clima, ma questo studio ha dimostrato che è possibile anche il processo inverso, aprendo la strada a nuove indagini sui rapporti tra Terra solida e Terra fluida, portati avanti da studi interdisciplinari che dovranno necessariamente coinvolgere vulcanologi, geomorfologi e climatologi”, conclude Sternai.