Cambogia, crolla il soffitto della fabbrica di scarpe “Wing Star Shoes” mentre gli operai erano a lavoro. Si tratta dell’ennesima tragedia del lavoro sottopagato e condotto in condizioni di sicurezza inesistenti. A nulla sono valsi gli scioperi dei lavoratori dello stabilimento che chiedevano migliori garanzie di sicurezza. Due le vittime e una decine di feriti secondo i primi bilanci
Dalle prime ricostruzioni pare che il soffitto della fabbrica sia crollato intorno alle 7 del mattino, mentre una cinquantina di operai erano già dentro. A causare il cedimento del piano ammezzato, probabilmente costruito con materiali scadenti, sarebbe stato l’eccessivo peso dei macchinari e delle scatole, ammassate in quantità enormi. La struttura in cui si è verificato l’incidente era infatti usata soprattutto come magazzino per i materiali di produzione.
Le operazioni di soccorso sono iniziate quasi immediatamente e si sono concluse nel corso della giornata di ieri. I primi bilanci parlano di 2 vittime e una decina di feriti. Nulla a confronto dei 1.127 morti causati dal crollo del palazzo di Dacca, in Bangladesh, ma la storia è sempre la stessa. Dietro il lavoro mal pagato degli operai dei paesi in via di sviluppo si celano gli enormi profitti delle multinazionali. Non accaso nel deposito cambogiano, gestito da una società taiwanese, si producevano scarpe rivendute dal marchio giapponese Asics. Chea Muny, a capo di un sindacato di lavoratori, ha specificato che i prodotti erano destinati all’esportazione in Europa e Stati uniti.
L’Asics ha immediatamente confermato i legami con la fabbrica “Wing Star Shoes”, suo fornitore di calzature sportive. Da Tokyo la portavoce dell’azienda, Masayo Hasegawa, pur dichiarando di non avere informazioni precise sull’ultima ispezione dello stabilimento cambogiano, ha dichiarato: “Diamo massima priorità al salvataggio di vite umane”, aggiungendo che le indagini sull’incidente non tarderanno.
Va da se che gli operai della stessa fabbrica hanno affermato di aver organizzato degli scioperi negli scorsi mesi per rivendicare un aumento del salario e migliori condizioni di sicurezza. Proteste rimaste lettera morta, perché si sa che fino a quando non succede qualcosa di eclatante le cose stentano a cambiare, o meglio fino a quando non ci scappa il morto nessuno si muove.
Il problema della sicurezza nei posti di lavoro, naturalmente, non è un problema soltanto cambogiano. Difatti, fu proprio il tragico incidente avvenuto lo scorso mese nella fabbrica tessile del Bangladesh a riportare alla luce le pessime condizioni di lavoro di molti paesi asiatici, le cui fabbriche sono spesso utilizzate per la produzione di marchi internazionali. Come è noto, la delocalizzazione della produzione nei paesi in cui il costo del lavoro è più basso non è un fenomeno recente ed è frutto del più ampio fenomeno conosciuto come globalizzazione. Tuttavia, la scelta di spostare un’attività economica in un altro luogo allo scopo di ridurre i costi della produzione, non sarebbe in se stessa una scelta eticamente scorretta o sbagliata. I problemi emergono quando la delocalizzazione viene confusa con lo sfruttamento e i diritti fondamentali dell’uomo vengono negati, o quando nei paesi sotto accusa le leggi che tutelano i lavoratori sono praticamente inesistenti.
Ecco perché una demonizzazione delle multinazionali occidentali risulta poco utile, soprattutto rispetto alla ricerca di soluzioni mirate. Un primo passo per cercare di risolvere il problema della sicurezza sul lavoro, che ancora nei paesi asiatici è la causa di centinaia di morti ogni anno, potrebbe però partire proprio dalle multinazionali occidentali. Lo step iniziale potrebbe essere quello di elaborare con le controparti asiatiche protocolli di sicurezza più restrittivi a garanzia della salvaguardia dei lavoratori.