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Continua la mattanza di delfini dal Giappone alle isole Salomone

Le associazioni ambientaliste internazionali denunciano la mattanza di delfini uccisi a migliaia per essere macellati o venduti ai delfinari

Scritto da Linda Reali il 29.01.2013

L’ultimo massacro in ordine di tempo risale alla scorsa settimana, quando nelle baie cristalline delle isole Salomone oltre mille delfini sono stati catturati. La maggior parte di essi, compresi 240 piccoli, sono stati macellati direttamente dagli abitanti delle isole per venderne la carne ai mercati asiatici ed estrarre i denti che per tradizione in alcune zone dell’arcipelago vengono utilizzati come moneta.

delfini massacro Giappone

Altri delfini, invece, quelli scampati alla mattanza, ma non alla cattura, vengono rinchiusi in vasche e per loro inizia un calvario che li porterà ai delfinari di mezzo mondo.

Se infatti sopravvivono al trauma dell’isolamento, dopo aver visto il proprio branco massacrato, devono affrontare un periodo di fame. Il delfino in natura si ciba solo di pesci vivi, mentre quelli catturati per i delfinari devono abituarsi a quelli morti. Essendo congelato, il pesce morto non fornisce idratazione al delfino che per questo viene dissetato artificialmente con un tubo infilato in gola. Gli esemplari che superano anche questo passaggio alla cattività vengono poi venduti per circa 150 mila dollari ai delfinari dei lucrosi Paesi orientali o agli sceicchi del Medio Oriente. 

A documentare e denunciare le mattanze perpetrate ogni anno in baie del Pacifico sono invece associazioni internazionali come la Earth Island Institute  e la Ocean Preservation Society. La prima ha diffuso la notizia del massacro di delfini nelle isole Salomone, nota meta turistica e fino ad ora insospettabile scenario di simili crudeltà.

La seconda ha invece portato alla luce la mattanza che ogni anno avviene in Giappone, in particolare nella baia di Taiji, dove migliaia di delfini vi si riuniscono per accoppiarsi, partorire o crescere i cuccioli al riparo dai predatori del mare aperto cadono invece nella trappola di un predatore ancora più spietato e crudele: l’uomo. Come nel caso delle isole Salomone, a compiere l’uccisione in massa di cetacei in Giappone sono semplici pescatori locali, ultimi anelli della catena in un mercato fiorente. Delle migliaia di dollari ricavate dalla carne (meno costosa di quella di squalo) o dagli esemplari vivi destinati alla cattività, i pescatori percepiscono ben poco, così sono “incentivati” ad uccidere o catturare quanti più esemplari possibili. Il vero guadagno è delle imprese che piazzano sul mercato ittico orientale (quello di Tokio è il più ricco, qui vengono stoccate le carni più pregiate di tutto il mondo, compreso l’ormai raro tonno) o dei mercanti di animali, che spesso lavorano su commissione di delfinari. 

Alle accuse e alle proteste dell’opinione pubblica internazionale, ormai ben informata grazie alle tenaci campagne di associazioni ambientaliste occidentali,  i pescatori giapponesi non si curano nemmeno di rispondere e in molti casi hanno impedito in modo violento le riprese della mattanza nelle baia di Taiji (come riportato nel film documentario “The Cove”). 

Gli abitanti delle Salomone, invece, giustificano la loro recente mattanza come un atto di protesta per un presunto mancato indennizzo di 400 mila dollari da parte dell’International Marine Mammal Project’s , un progetto della Earth Island Institute che destina fondi per il  finanziamento di nuove attività per la creazione di fonti alternative di reddito. L’Earth Island Institute smentisce qualsiasi accordo preso con i pescatori, sottolineando di aver preso accordi con villaggi non coinvolti nel massacro di delfini. Dal 2010, infatti, l’associazione americana impegnata da quasi trent’anni nella salvaguardia di cetacei in tutto il mondo, ha stretto un accordo con tre villaggi delle isole Salomone, Fanalei, Walend e Bitamae, per la creazione di infrastrutture destinate all’educazione dei bambini e alla sanità e all’ecoturismo come fonte di reddito alternativa al commercio di delfini.

Sul fronte giapponese e quello delle Salomone la battaglia rimane aperta tra le associazioni ambientaliste da una parte e  i pescatori e i trafficanti di animali. In mezzo, Governi indifferenti o conniventi, con politiche spesso ambigue, divise fra il raccogliere la protesta dell’opinione pubblica e il favorire un commercio crudele, ma redditizio. Se in questa battaglia le dinamiche sono talvolta poco chiare, l’unico cosa certa rimane il massacro di migliaia e migliaia di delfini ogni anno, imprigionati nelle reti o nei canali di scarico delle città (solo per citare il recente caso del delfino finito in una fogna a cielo aperto della civilissima New York), finiti nei raffinati piatti giapponesi o in tristi vasche per il divertimento.

 

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