Il 20 luglio scorso è stato presentato il documento dell’ indagine conoscitiva effettuata dalla Commissione Agricoltura della Camera sui danni causati dagli animali selvatici.
Il documento ha destato molto scalpore perchè, fra le tante possibili soluzioni proposte per arginare i danni che la fauna selvatica causa alle attività umane, è vagliata l’ipotesi di abbatimento anche di specie protette fra le quali il lupo e l’aquila reale.
Molte sono state le reazioni indignate delle associazioni ambientaliste contro questa ventilata possibilità.
Abbiamo intervistato il dottor Giorgio Boscagli, direttore del Parco delle Foreste Casentinesi e studioso del lupo da oltre trent’anni. Gli abbiamo chiesto quali sono i problemi che realmente creano lupi e cinghiali, perchè, e quali siano le soluzioni più efficaci ed auspicabili.
Di seguito trovate anche la versione audio dell’intervista.
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Domanda:Il 20 luglio scorso è stato approvata e presentata l’indagine conoscitiva effettuata dalla Commissione Agricoltura della Camera sui danni causati dagli animali selvatici. Fra gli animali che creano più problemi all’agricoltura ci sono i cinghiali. Nella sua esperienza quali sono i problemi legati a questa specie e quali sarebbero le soluzioni più efficaci?
Giorgio Boscagli: Premetto che per formazione professionale non sono particolarmente esperto di cinghiali, ho dovuto però affrontare delle questioni in relazione sia ai problemi che i cinghiali avrebbero potuto arrecare alla sopravvivenza dell’orso quando lavoravo al Parco d’Abruzzo e sia più in generale come responsabile e funzionario di aree protette per i problemi che questa specie crea effettivamente all’agricoltura.
Premesso questo, io direi che dobbiamo innanzitutto puntualizzare che cosa vogliamo intendere per “gravi danni”, nel senso che scorrendo il lungo testo dell’indagine conoscitiva, ho cercato più volte dei numeri perché è evidente che una cosa può essere definita leggera, moderata, accettabile o grave a seconda di con che cosa la si confronta. Devo dire che ci sono pochi numeri nel complesso dell’indagine conoscitiva e nemmeno tutti citati a proposito e corretti per quel che a me risulta.
Dobbiamo innanzitutto dire “perché” ci sono tutti questi cinghiali: quelli originari del territorio appenninico erano i cinghiali cosiddetti maremmani che fino a più o meno la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, erano rimasti confinati a pochissime aree del territorio italiano: non c’erano più sulle Alpi e non c’erano più su gran parte degli Appennini. Ne rimaneva qualche nucleo di una certa consistenza nella Toscana meridionale, direi nell’alto Lazio, forse qualcosa nelle riserve del Presidente della Repubblica, forse qualcosa al Circeo, ma comunque aveva areale di distribuzione molto ristretto.
Viceversa in quegli anni i Comitati Provinciali per la Caccia all’epoca esistenti dettero il via ad una serie, io direi scellerata, di operazioni pseudo-ambientali, pseudo-faunistiche e direi addirittura pseudo-venatorie, nel senso che non credo sia stato e sia nell’interesse del mondo venatorio (quello di qualità) aver fatto operazioni come quella di acquistare cinghiali dal centro Europa e rilanciarli in Italia. Operazioni che in termini di qualità scientifica e qualità naturalistica non solo valevano meno di zero, ma addirittura avrebbero determinato un danno pesante alla biocenosi esistente sul territorio nazionale. Voglio dire che oggi noi ci troviamo letteralmente invasi da cinghiali che non hanno più un pregio di tipo naturalistico, sono solo degli enormi maiali, grossi più del doppio di quelli che una volta esistevano sul territorio italiano, hanno un indice di riproduzione e un indice di fertilità molto più alto rispetto a quello dei cinghiali originari, quindi spesso e volentieri ci sono più riproduzioni nello stesso anno e nasce un numero di piccoli per cucciolata che è il doppio di quello dei cinghiali, chiamiamoli, “nostrani”.
Però oramai ce li troviamo sul territorio e il problema va gestito. Non bisogna negare che c’è anche il rovescio della medaglia e cioè che per esempio una buona parte della salvezza del lupo la dobbiamo al fatto che il lupo ad un certo punto ha capito che i piccoli di cinghiale sono saporiti e nemmeno troppo difficili da conquistarsi come preda per cui oggi direi che la popolazione così diffusa del cinghiale sostiene in gran parte la popolazione di lupo. E’ chiaro che i cinghiali determinano un danno all’agricoltura per cui sicuramente, specialmente all’interno e a contorno delle aree protette questo è un problema. Come affrontarlo? Non esiste né la bacchetta magica né una soluzione unica e io credo che in questa sede sarebbe un’offesa all’intelligenza tentare di liquidare con qualche frase un problema col quale il mondo dei naturalisti e dei biologi che si occupano di fauna selvatica si stanno confrontando da trent’anni.
Sono state ipotizzate soluzioni di vario genere: da quelle delle reti a quelle delle recinzioni elettrificate che però farebbero diventare il territorio una sorta di immenso lager e poi avrebbero un costo eccessivo per le coltivazioni di grandi estensioni. Sono stati ipotizzati anche dei metodi di dissuasione, ma io in realtà credo che non esista un sistema unico e che non si possa delegare completamente il controllo del cinghiale all’attività venatoria. Io sono un forte sostenitore di un percorso di collaborazione: se riuscissimo ad avere dei tavoli di collaborazione veri fra chi gestisce le aree protette, il mondo ambientalista e il mondo venatorio con ogni probabilità una qualche soluzione ragionevole la si potrebbe trovare.
Foto Romano Visci Fonte www.parcoabruzzo.it
D.: Altro punto forte del documento è la citazione della convenzione di Berna del 1979 che prevede la possibilità di abbattere anche specie protette se creano danni eccessivi alle cose o pericolo per le persone. Questo soprattutto in riferimento alla popolazione del lupo. Può avere senso un’azione simile secondo lei? E in che casi?
G.B.: Questo è l’argomento più spinoso e più strumentalizzato. Innanzitutto i numeri che compaiono nell’indagine parlamentare, cioè fra 600 e 1000 esemplari di lupo in Italia a me sembrano quasi riduttivi rispetto al reale. Questa è una cosa che sicuramente emerge con forza dall’indagine e cioè che manca un coordinamento nazionale sul problema di chi si occupa e si è occupato di questa specie con un approccio professionale: da questo gruppo dovrebbe emergere l’orientamento rispetto alle decisioni da prendere. Un primo problema è quindi quello che manca sicuramente un orientamento univoco.
Per quello che riguarda invece la Convenzione le circostanze in base alle quali prevede le possibilità di abbattimento non sono così definite.
Intanto escludiamo una volta per tutte la storia della pericolosità del lupo per l’uomo perché questa è una fandonia. Un’altra fandonia, anch’essa purtroppo presente e che è una sorta di dejà-vu, una specie di ritornello da quarant’anni a questa parte, è che ad un certo punto, non mi ricordo bene chi, un’associazione agricola o qualcun altro, parla tranquillamente, come se fosse provato e documentato, di operazioni di ripopolamento del lupo avvenute sul territorio italiano!! Questo non è mai – assolutamente mai – accaduto nel nostro Paese. Allora è chiaro che se una commissione parlamentare si fa influenzare da fandonie di questo genere – e non uso a caso “fandonie” – è evidente che poi le conclusioni possono essere anche fuorvianti.
Io credo che non siamo assolutamente ancora in una situazione davvero problematica. E poi se andiamo a vedere fra i pochi dati numerici relativi agli effettivi costi di questi danneggiamenti c’è soltanto un numero che parla di circa 2.240.000 euro come danni indennizzati. Ma vogliamo davvero considerare questa cifra un danno “insostenibile” per un Paese che pretende di essere la settima potenza economica a livello mondiale? Io mi chiedo veramente se qualcuno abbia ragionato anche in questi termini. Una cifra come 2.240.000 euro viene considerata una spesa insostenibile in termini di rifusione del danno per un Paese che si permette una manovra finanziaria da 70 miliardi di euro l’anno? Beh, non facciamo ridere… Allora intanto cominciamo a capire che cosa significa il termine “grave”. Io ritengo che la spesa che questo paese sostiene per l’indennizzo dei danni sia del tutto irrisoria rispetto al valore di una biocenosi come quella che da trenta o quaranta anni si cerca di ricostruire. Per cui il problema non ritengo sussista in termini economici.
Sussiste invece in termini psicologici e di danno individuale, danno sul singolo allevamento (se vogliamo parlare di danno che arreca il lupo) o di singola attività agricola se vogliamo parlare del cinghiale. Il problema è che ovviamente il danno non deve pagarlo il singolo operatore zootecnico, che sia un pastore, un allevatore di bovini, di cavalli eccetera o il singolo agricoltore; perché il danno viene in qualche modo arrecato da una specie che viene protetta nell’interesse scientifico e culturale di tutta la collettività nazionale! Quindi vanno concentrati fortemente gli sforzi per capire dove sono le situazioni critiche e come possono essere attenuate. Non voglio dire superate e “ridotte a zero”, perchè questo sarebbe non solo una pretesa insostenibile, ma io direi che sarebbe sbagliato anche sotto il profilo economicistico: nel senso che un’attività di qualunque genere ha un cosiddetto “rischio di impresa”. Allora dobbiamo cercare di ridurre al minimo questo rischio senza però dare spazio a quelli che pretendono, come ho visto affermato in più di qualche passaggio, che gli allevatori non vogliono essere risarciti, bensì, a monte, non vogliono subire il danno!
Nemmeno l’agricoltore vorrebbe il temporale o la grandine, però quando il temporale arriva ……….si cerca di venirgli incontro coi risarcimenti o gli aiuti. Questo si chiama rischio di impresa, in economia. Io credo che vada accettato, tanto quello del temporale come quello del lupo.
Anche qui: io credo personalmente che non ci sia la benché minima giustificazione per invocare la convenzione di Berna, dico anche sommessamente che dopo la Convenzione di Berna, che risale al 1979, in realtà è stata approvata la direttiva Habitat che vede fra le specie prioritarie il lupo; per cui direi che, dopo aver lavorato trenta o quaranta anni per la salvaguardia del lupo, poter mettere sulla nostra livrea internazionale il fiore all’occhiello di aver salvato questa specie credo che sia un risultato del quale andare orgogliosi. E questo perché siamo partiti dagli anni settanta, quando erano stimati in Italia un centinaio di lupi, e quaranta anni dopo ne stimiamo quasi un migliaio, forse qualcuno di più. E’ un grande risultato!
Sinceramente l’indagine forse poteva essere condotta meglio e altrettanto sicuramente poteva essere condotta con un maggior supporto di chi potesse portare dati e non opinioni o chiacchiere. Però questo è l’insieme delle problematiche che sono state evidenziate e il tentativo di dare un supporto, una serie di riferimenti – e qui, ripeto siamo ancora carenti – a chi dovrà eventualmente legiferare sull’argomento mi sarebbe sembrato indispensabile. Nell’indagine per fortuna non c’è un indirizzo chiaro verso l’abbattimento del lupo. E’ una delle ipotesi che emergono. E’ chiaro che personalmente sono assolutamente contrario perché ritengo del tutto infondate molte delle considerazioni che sono state fatte. Semplicemente ognuno ha portato acqua al proprio mulino.
D.: Come sono cambiati gli equilibri nella relazione fra uomo e lupo attraverso la seconda metà dell’ultimo secolo?
G.B.: Sono cambiati nel senso che l’economia dell’ultimo dopoguerra era un’economia molto più agro-pastorale di quanto non sia oggi. Moltissimi allevatori hanno abbandonato la propria attività, quella pastorale è diventata un’attività tecnicamente molto più organizzata, spesso però intesa come attività di corollario, per cui complessivamente direi che quantitativamente si è ridotto di molto l’oggetto del contendere. Assieme a questo nuovo quadro, di tipo economico-sociologico, non ci dimentichiamo neppure che nel dopoguerra, di Ungulati selvatici nel nostro Paese, quantomeno in Appennino, non ce n’erano più, tranne qualche camoscio nel Parco Nazionale d’Abruzzo, forse qualche capriolo sul Gargano, forse qualcuno nel Pollino. Per il resto non c’era più un cervo, non c’era più un capriolo e c’erano i pochissimi cinghiali di cui abbiamo parlato. E’ stato grazie all’impegno di tutti quelli che hanno lavorato negli ultimi trenta o quaranta anni per la ricostruzione degli equilibri biologici nel nostro Paese se la situazione oggi è enormemente migliore in termini di equilibri ecosistemici.
Dire che è cambiato l’equilibrio fra lupo e uomo è vero, ma è stato un cambiamento di equilibrio determinato non solo da un cambiamento culturale dell’uomo, determinato sicuramente dalla spinta del mondo ambientalista e sulla spinta di quelli che dalla fine degli anni sessanta in poi, come antesignani, hanno cominciato a lavorare sottolineando il valore di queste specie animali; ma anche perché, oggettivamente, c’è stata una sorta di risposta dell’ambiente naturale, sostenuta dall’uomo, appunto, con le operazioni di riqualificazione ambientale come le reintroduzioni dei cervi, dei caprioli che permettono oggi al lupo di essere molto meno insistente e pesante in termini di danno alla zootecnia.
D: Quanto è importante il lupo in un ecosistema? Quali sono i criteri per stabilire quale sia il numero di lupi che mantenga un ecosistema in equilibrio?
G.B.: Il lupo in un ecosistema è di un’importanza straordinaria. Direi che non sfugge a nessuno il fatto che gli animali al vertice delle cosiddette piramidi ecologiche sono quelli a cui è deputato quasi un compito di “sanitari della natura”. Nel senso che svolgono la selezione sulle popolazioni di prede, in particolare sulle prede selvatiche. Io sono molto contento che al Parco delle Foreste Casentinesi, che dirigo, in realtà di danni alla zootecnia causati dal lupo, ne abbiamo pochissimi. Viceversa abbiamo probabilmente, rispetto al numero di individui e branchi per unità di superficie, la popolazione di lupi più densa d’ Italia. Che significa questo? Significa che grazie alla grande quantità di ungulati selvatici, cervi, caprioli, cinghiali e daini che vivono sul territorio del parco il lupo è tornato progressivamente a svolgere il suo ruolo naturale, cioè il controllore di queste popolazioni di prede selvatiche.
Da un punto di vista generale, in un ecosistema sano – questa credo sia la chiave di lettura – il lupo ha un’importanza elevatissima. In un ecosistema degenerato, cioè dove non ci sono più le prede selvatiche e quindi in una situazione in cui il lupo è costretto ad alimentarsi su prede domestiche o, come succedeva venti o trent’anni fa, di ciò che razzolava sulle discariche dei rifiuti, è chiaro che saltano tutti i termini del problema. In questi casi il lupo non svolge più il ruolo per cui l’ha selezionato Madre Natura. In conclusione: bisogna capire a che contesto ambientale facciamo riferimento.
E’ chiaro che un’appendice di questo discorso è quella del “come facciamo a limitare i danni da lupo negli ambienti in cui il lupo preda ancora fortemente sul patrimonio zootecnico?”.
Ecco, questo è il tema tecnico sul quale confrontarsi. In queste situazioni dobbiamo mettere a frutto tutte le nostre esperienze e conoscenze, scientifiche e gestionali; tutte le nostre capacità per arrivare a mitigare queste situazioni “acute”. Possibilmente, senza prendere in considerazione ipotesi di abbattimento di lupi perché ci faremmo una figura da mentecatti a livello mondiale.
Infatti lavorare quattro decenni per salvare una specie animale dall’estinzione; avere oggi sul territorio una popolazione di lupo in crescita – ma sicuramente non a livello di saturazione degli ambienti potenzialmente ospitali – e prendere in considerazione ipotesi di abbattimento di un animale per la cui salvaguardia sono stati spesi anche un bel mucchio di soldi (fra progetti dell’Unione Europea, finanziamenti regionali, fondi ordinari di parchi e riserve che hanno lavorato su questa specie) e poi, quando da qualche parte si verifica un po’ più del danno che viene ritenuto (insindacabilmente) “eccessivo”, qualcuno salta su e dice “cominciamo a sparare al lupo”………… a me sembra letteralmente da pazzi!