Con un rapporto stilato in occasione della Giornata mondiale della biodiversità, Legambiente propone una sintesi sullo stato di salute degli organismi viventi, indaga le principali minacce ambientali che gravano sul nostro pianeta e propone alcune strategie per ostacolare la perdita di biodiversità.
Un documento del genere assume per il nostro paese un significato molto particolare. Un po’ per via della storia geografica del nostro continente, un po’ per la diversità di ambienti e nicchie ecologiche che ospitano i nostri territori, un po’ per il clima che attualmente regna da noi, la nostra penisola, assieme alle penisola balcanica ed iberica, detiene il patrimonio più prezioso in termini di diversità biologica in ambito europeo. In particolare, l’Italia è considerata a livello mondiale uno dei “punti caldi”, i cosiddetti hotspots di biodiversità. Allo stesso tempo, tuttavia, il Mediterraneo è una delle culle della civiltà odierna e, conseguentemente, i nostri ambienti naturali sono tra quelli maggiormente sottoposti a molteplici pressioni, prima fra tutte quella demografica.
A livello mondiale, ad occuparsi di perdita di biodiversità è l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) che da circa quarant’anni lavora e pubblica volumi noti come “Red lists” ovvero liste rosse che segnalano le specie in pericolo di estinzione ed il grado di rischio cui sono sottoposte. Dietro questi volumi c’è il preziosissimo lavoro di esperti, studiosi ed appassionati che collaborano alla redazioni di queste liste in maniera del tutto volontaria e gratuita.
Si parla spesso di diversità biologica, della sua tutela e dei rischi cui è soggetta, ma è opportuno ricordare che sono ben tre gli aspetti fondamentali racchiusi in questo concetto. Sicuramente la diversità di ambienti, di habitat: la diversità ecosistemica, percepibile a scala di paesaggio, è quella che sostiene la fitta rete di relazioni esistente tra la componente biotica e quella abiotica. Poi c’è il concetto della diversità specifica, per noi più immediatamente comprensibile. Qui è fondamentale guardarsi bene da un’analisi superficiale, perché almeno nel mondo vegetale il numero di specie non sempre è indicatore di naturalità. Se infatti rimaniamo incantati di fronte alla meraviglia di una prateria primaverile in fiore, è bene ricordare che alle nostre latitudini molte delle formazioni forestali mature sono in realtà caratterizzate da un numero relativamente esiguo di specie.
Vi è poi infine la diversità genetica che, se vogliamo, è alla base delle altre, ed è buona garanzia della salute di un ecosistema. Nel caso di un attacco parassitario o di altra natura, è anche e soprattutto dalla diversità genetica di una popolazione che dipende la possibilità di resistere e sopravvivere.
All’interno del rapporto di Legambiente, un’analisi dello stato della biodiversità in Italia è stata fornita da Carlo Rondinini, ricercatore dell’Università “Sapienza” di Roma e coordinatore del Global Mammal Assessment. Ad oggi, secondo quanto riportato da Rondinini, per quel che riguarda il nostro paese sono stati valutati 2807 organismi tra spugne, coralli, squali, insetti, pesci d’acqua dolce, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi. Di queste, ben 596, pari a più di un quinto del totale, sono state considerate a rischio, mentre di 376 non si è potuta dare una valutazione, segno di come molti studi siano ancora necessari. Per dare qualche altro numero, 111 specie sono state classificate come “in pericolo critico” e 183 come “in pericolo”, mentre fortunatamente, ben 1340 sono state classificate come destanti “minor preoccupazione”.
Secondo l’analisi di Rondinini, gli ambienti maggiormente conservati sono le terre emerse, un risultato più o meno in linea con quello mondiale. Preoccupa però la situazione degli uccelli legati agli ambienti agricoli e quella di 30 specie di chirotteri, il cui stato di conservazione è peggiorato nel corso del tempo, a causa dell’intensificazione delle pratiche agricole per quanto riguarda gli uccelli, e del degrado degli ambienti di elezione per quel che concerne i chirotteri.
Più grave sembra essere la situazione nelle acque dolci. Qui la modificazione permanente del regime idrologico di molti corsi d’acqua, la captazione, i cambiamenti nel regime pluviometrico e l’introduzione da parte dell’uomo di pesci e crostacei hanno prodotto diversi squilibri in questi ambienti. In particolare, quasi la metà dei pesci d’acqua dolce italiani è a rischio di estinzione, mentre se la passano leggermente meglio gli anfibi per i quali il rischio, che comunque non è considerato particolarmente critico, riguarda circa il 30% delle specie considerate.
Grave è pure la situazione dei nostri mari, dove spugne e coralli, che vivono su fondali direttamente ed indirettamente impattati da diverse attività antropiche, risultano essere i gruppi più minacciati ed al contempo quelli per cui maggiormente evidente è la mancanza di informazioni.
A conclusione di questa analisi, Rondinini sottolinea come uno dei problemi più allarmanti sia rappresentato dal rischio di estinzione che interessa le specie endemiche, -ovvero quegli organismi il cui areale di distribuzione è limitato ad un’area ristretta, in questo caso l’Italia-.
La diversità biologica è complessità, parte integrante di quel fitto intreccio di reti trofiche, prede e predatori, organismi viventi, ecosistemi. Perdere un anello della catena significa provocare delle alterazioni, cui tutto il sistema dovrà adeguarsi. Secondo quanto stabilito dal Millennium Ecosystem Assessment, un progetto di ricerca delle Nazioni Unite, le principali cause della perdita di biodiversità riguardano cambiamenti climatici, perdita e frammentazione di habitat, sovrasfruttamento delle risorse naturali, fonti inquinanti ed introduzione di specie aliene. Le conseguenze di questo fenomeno possono essere molto gravi, e proprio per questo la perdita di biodiversità è attualmente considerata una delle minacce più serie per il pianeta.