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Gli albatros siamo noi: il reportage di Chris Jordan

L’albatros, questo vasto uccello del mare, principe delle nubi, sul suolo, goffo e impacciato, camminava maldestro, deriso dai marinai. Ora non sono più solo le sue ali da gigante ad ostacolarlo

Scritto da Valeria Gatti il 21.09.2012

Baudelaire gli aveva dedicato una poesia, “L’albatros”. Questo vasto uccello del mare, prince des nueés, principe delle nubi, viaggiatore alato, che sfidava le tempeste ma, sul suolo, goffo e impacciato, camminava maldestro, deriso dai marinai. Ora non sono più solo le sue ali da gigante che gli impediscono di muoversi. Oggi un poeta moderno narra la storia degli albatros dell’isola del Midway da dietro un obiettivo. É Chris Jordan, fotografo attivista, artista di “unaware behaviour” (comportamenti inconsapevoli), come lui stesso si definisce. Basta poco per accorgersi che non è provocazione, che non si tratta di arte fine a se stessa. Sono scatti fotografici e un video che assurgono a simbolo tragicamente emblematico della nostra stessa incapacità di scelta.

Di chi saranno questi comportamenti inconsapevoli? Questi enormi uccelli, che normalmente si nutrono di calamari, pesci o altri animali che nuotano sulla superficie dell’acqua, ora finiscono per inghiottire incidentalmente pezzetti di plastica di ogni sorta che galleggiano sull’oceano. Resti e detriti della specie umana. Gli uccelli, una volta tornati sulla terra ferma, invece di rigurgitare pesciolini per cibare i loro piccoli, come erano soliti fare, rigurgitano plastica, passandosela da becco in becco. Per tre anni, il fotografo di Seattle Chris Jordan e un piccolo gruppo di montatori cinematografici hanno filmato gli albatros che vivono sull’isola di Midway. L’atollo di Midway si trova nell’Oceano Pacifico, nella parte occidentale dell’arcipelago delle Hawaii, anche luogo d’atterraggio degli astronauti di ritorno dalle missioni spaziali in caso di emergenza.  

Qui, a più di tremila chilometri dalla terra ferma, uno scenario da incubo si è aperto davanti alla troupe e ha mostrato schiettamente quanto l’impatto dell’uomo possa essere dannoso per la natura: centinaia, migliaia di albatros morti, carcasse di pulcini soffocati dai detriti umani con accanto sfavillanti pezzetti di plastica, accendini e altro, scambiati dai genitori tra le onde per riflessi di appetitose scaglie con cui sfamare i loro piccoli. Per migliaia di anni gli albatros non sono stati abituati a distinguere tra ciò che potevano o non potevano ingerire. “Oggi, invece di tornare a casa con il loro stomaco pieno di calamari, questi uccelli tornano con accendini colorati e oggetti di plastica di ogni sorta”, racconta Chris.

John Klavitter, biologo e vice direttore del rifugio Midway Atoll National Wildlife Refuge, dice, in un’intervista alla rivista Wired, che “gli albatros adulti riescono a rigurgitare gli oggetti nel loro stomaco, ma i pulcini sviluppano questo riflesso istintivo solo quando hanno circa quattro mesi e mezzo. Con il risultato che lo stomaco dei piccoli rimane pieno più di plastica che di cibo. Spesso – continua il biologo – la plastica crea ferite nello stomaco degli uccelli, minacciando seriamente la loro vita. Altre volte muoiono per disidratazione, affamati o intossicati dai veleni”. I resti possono infatti ostruire il loro esofago, lacerare il sistema digerente, permanere nello stomaco dando un falso senso di sazietà e portando il pulcino a malnutrizione e stress psicologico.

Ma non è solo la plastica che li confonde. Questi uccelli percorrono chilometri per procurarsi il cibo e, quando non vengono uccisi dagli ami disposti in mare dalle navi dei pescatori, è dalla troppa fatica in volo. L’innalzamento delle temperature ha infatti fatto sì che gli animali di cui gli stessi vanno in cerca si stanno spostando sempre più a nord, allontanandosi drasticamente “gli albatros sono specie che fanno da indicatore: quando si assiste a un declino consistente della loro popolazione, è un grave campanello d’allarme che qualcosa sta accadendo al nostro Pianeta”, conclude Klavitter.

Le foto di Chris hanno ricevuto il premio Prix Pictet, noto premio per la fotografia sostenibile. Le foto sono senza dubbio schiette, così come il video. “Gli uccelli erano davvero tanti e tutti completamente pieni di plastica – spiega Chris – ho deciso di impostare un discorso fortemente etico più che artistico, è stata un’esperienza sconvolgente andare là e vedere così tanta morte”.

Le carcasse degli albatros giacciono inerti al suolo, ricomposte da Chris, con lo scheletro, il becco e lo stomaco aperto, come in una radiografia istantanea. Le piume bianche e grigie si vanno decomponendo, confondendosi ciò che invece resta intatto, cioè gli oggetti di cui quotidianamente ci serviamo, che facciamo passare tra le nostre mani: tappi di plastica, accendini, pezzi di tubi, reti, persino piccoli orsetti-giocattolo e palline da ping pong.

Oltre a questi lavori fotografici e al filmato, Chris sta preparando un nuovo documentario, la cui uscita è in programma per il 2014. Per questo il gruppo farà altre due visite all’arcipelago, una in settembre e l’altra il dicembre prossimo, con il desiderio di immortalare le loro danze di accoppiamento. “Per me, inginocchiarmi davanti a quelle carcasse è come guardare in uno specchio macabro – scrive Chris sul suo sito web – questi uccelli riflettono lo sconvolgente ed emblematico risultato della trance collettiva del nostro consumismo e della crescita industriale, ormai fuori controllo. Come gli albatros, noi esseri umani del primo-mondo ci troviamo noi stessi deprivati della capacità di scegliere ciò che è nutrimento da ciò che è tossico per le nostre vite e per il nostro spirito. Soffocato a morte dai nostri rifiuti, il mitico albatros ci invita ad ammettere che la nostra sfida più grande non risiede là fuori, ma dentro di noi”.

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