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L’agricoltura ha peggiorato la qualità della vita nelle prime società umane stanziali

Scritto da Giusy Cerniglia il 15.07.2011

Spighe di granoL’antropologa americana Amanda Mummet, dell’Università di Emory di Atlanta, studiando resti umani del periodo neolitico, provenienti da Africa, Asia ed Europa, è riuscita a dimostrare che l’origine della società stanziale fece peggiorare le condizioni di salute e di sviluppo fisico.

“L’analisi di 21 organizzazioni sociali che hanno abbandonato la caccia in favore dell’agricoltura ha avvalorato la tesi secondo cui una riduzione dell’altezza media ed un aumento delle patologie infettive sono legate alla mancanza di micronutrienti provenienti dalla cacciagione, poiché anche se con l’agricoltura le calorie sono state abbondanti, vitamine e minerali decisivi per la crescita sono diventati insufficienti”. La scienziata Amanda Mummet parla addirittura di “involuzione”.

La ricerca è comparsa su un recente numero di Economics and Human Biology.

Questa scoperta mette in discussione il luogo comune secondo cui le società che nel passato sono diventate stanziali hanno beneficiato di questo cambiamento. L’archeologo australiano Gordon Childe (1892-1957) spiegava lo sviluppo delle società preistoriche stanziali come il frutto di interdipendenza di fattori ambientali e sociali.

Oltre 10.000 anni fa resta fondamentale e importantissimo il ruolo attivo delle comunità che vivevano in prossimità delle coste nell’acquisizione del vincente modello agro-pastorale che determinerà una vera “rivoluzione” nella storia dell’umanità e segnerà il superamento di una esclusiva economia basata sulla caccia.

Ma le varie teorie su tale passaggio da sole non sono sufficienti a spiegare questo delicato evento.

Grazie agli studi della bioarcheologia e della archeozologia ci vengono in aiuto nuove e più ricche informazioni sulla prima pratica dell’agricoltura e sulla domesticazione di alcuni animali.

Ma qual è il fattore scatenante? Cosa ha determinato il passaggio da una sussistenza nomade a quella sedentaria e stanziale?

Gli studi condotti dall’Archeologa Mummet concordano nell’affermazione che il fenomeno è avvenuto in aree i cui ecosistemi divennero chiusi ed autosufficienti, molto favorevoli anche climaticamente, che davano la possibilità di drenare risorse permettendo così ai gruppi umani il prolungamento della permanenza.

Resta così avvalorata la tesi dell’archeologo Gordon Childe, per cui il passaggio alla vita stanziale ebbe luogo soprattutto nell’ambito di siti costieri fortemente dipendenti dalle risorse marine, che quindi permettevano la sussistenza di popolazioni stanziali, con il conseguente sviluppo di nuovi strumenti idonei ai nuovi bisogni connaturati alla società agro-pastorale nascente.

Ma oggi sappiamo che all’accresciuta capacità produttiva non ha corrisposto un analogo salto della qualità della vita e nella gestione e organizzazione sociale, giungendo ad una sorta di implosione con decrescita socio-economica e con fenomeni di riduzione dell’altezza e di robustezza delle ossa, un chiaro segno di sofferenza e malnutrizione. Una società ancora strutturata sullo schema dell’economia di villaggio non resse all’impatto di un diverso volume produttivo e giunse in molti casi al collasso.

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