Uno studio condotto sul genoma di 801 centenari da un team di ricercatori dell’Università di Boston (MA) e pubblicato ieri su Science, ha portato all’individuazione di 150 varianti caratterizzanti delle persone che tendono ad invecchiare ammalandosi in misura minore rispetto alla media della popolazione.
Lo studio è durato dieci anni, ha coinvolto 1055 persone di età media di 103 anni con un massimo di 119, la loro struttura genetica è stata confrontata con quella di altre 1267 persone “normali”; il confronto effettuato ha portato alla definizione delle varianti del DNA statisticamente legate ad un un “buon” invecchiamento.
Con l’analisi del DNA si potrà prevedere con un’accuratezza del 77% la durata possibile della vita del soggetto; ovviamente tale dato sarà solo una stima, in quanto i fattori che influenzano la salute e la sopravvivenza di un individuo sono molteplici: vanno presi in considerazione i fattori ambientali, i possibili incidenti e, ovviamente, lo stile di vita del soggetto.
Le 150 varianti genetiche identificate sono state suddivise in 19 macro-aree, ciascuna relativa ad un problema di salute, dai problemi circolatori, alle degenerazione cerebrale; tuttavia è bene specificare che non è stato identificato un singolo fattore che, se ereditato, possa garantire una longevità superiore alla media. Inoltre un buon invecchiamento non è legato solo alla presenza di questi geni “rinforzanti”, ma va tenuta in debita considerazione anche la presenza di geni “debilitanti” che possono favorire l’insorgere di malattie.
Ovviamente tale scoperta ha notevoli ripercussioni economiche, in particolar modo negli Stati Uniti, in cui le assicurazioni mediche private sono un vero e proprio business: essendo i dati di questa ricerca di pubblico dominio, è facile prevedere che per sottoscrivere un’assicurazione sanitaria sarà necessario sottoporsi ad uno screening genetico e in base ai risultati ottenuti, la compagnia assicuratrice stabilirà il premio da pagare o addirittura potrà rifiutarsi di sottoscrivere la polizza a soggetti “a rischio”.
Tale scoperta è anche l’ennesima conferma che gli scienziati italiani all’estero trovano maggiori spazi e opportunità di ricerca che non nel nostro paese: la prima a firmare l’articolo su Science è la ricercatrice italiana Paola Sebastiani, esperta in biostatistica trasferitasi a Boston dieci anni fa.