Pochi giorni fa ricercatori di Hong Kong hanno sperimentato l’estrazione di DNA dal sangue della madre senza effettuazione di amniocentesi o villocentesi. Tuttavia, in attesa di una nuova tecnica di diagnosi prenatale più sicura per il nuovo nato, in Italia si pensa di ridurre il ricorso, giudicato eccessivo, a queste pratiche da parte del servizio sanitario pubblico.
E’ quanto riporta l’ANSA, che fa sapere che sono state redatte nuove linee guida sulla gravidanza fisiologica da un gruppo multidisciplinare di professionisti coordinati dall’Istituto superiore di sanità (Iss) e dal Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria (Ceveas) per il ministero della Salute, che stabiliscono condizioni più stringenti, offrendo l’amniocentesi e la villocentesi alle donne di tutte le età (e non più dai 35 anni in su) ma se positive al test combinato usato come strumento di screening per la sindrome di Down. Chi vorrà comunque effettuare questo tipo di analisi non rientrando nelle categorie a rischioo, dovrà pagare gli esami di tasca propria.
L’amniocentesi è una procedura che consente il prelievo transaddominale di liquido amniotico dalla cavità uterina; è la metodica più diffusa per ottenere campioni biologici utili al fine di effettuare una diagnosi prenatale. Purtroppo, tale pratica è rischiosa per il feto, è può indurre ad una aborto nell’1 per cento dei casi. Secondo gli ultimi dati, in Italia alle madri con più di 40 anni l’amniocentesi è stata fatta nel 43,43% dei parti. La villocentesi è una tecnica alternativa che consiste nel prelievo di placenta, che si esegue dopo la decima settimana di gestazione sempre per via transaddominale, con rischi simili.
All’ANSA Vittorio Basevi del Ceveas ha detto che “si tratta di introdurre una diversa pratica clinica per individuare le donne a rischio, facendo dell’amniocentesi e villocentesi delle indagini di secondo livello”. Si vuole infatti far arrivare le donne ad effettuare questi test solo dopo test come la translucenza nucale o le analisi del sangue abbiano indicato un’effettivo pericolo di una diagnosi di sindrome di Down. “Ma c’è un rischio di perdite fetali di circa il 2 per cento”, aggiunge Basevi. “Stabilire invece prima, con il test combinato, chi è a rischio – continua Basevi – riduce il numero di interventi diagnostici invasivi e dei nati con sindrome di Down”.
Nell’ambito delle tecniche diagnostiche prenatali invasive, si legge nel rapporto del CeDAP che riporta gli ultimi dati disponibili del 2007, l’amniocentesi è quella più usata, seguita dall’esame dei villi coriali (nel 3,39% delle gravidanze) e dalla funicolocentesi (nello 0,6%). In media ogni 100 parti sono state effettuate 15,4 amniocentesi.
L’utilizzo di tale indagine prenatale è diversificato a livello regionale, nelle regioni meridionali si registra una percentuale al di sotto del 12% (ad eccezione della Sardegna) mentre i valori più alti si hanno in Valle d’Aosta (37,1%) e Liguria (27,6%). A livello nazionale alle madri con più di 40 anni il prelievo del liquido amniotico è stato effettuato nel 43,43% dei parti.
Parti cesarei
Sempre nel rapporto del CeDAP sui dati del 2007, viene confermato il ricorso eccessivo all’espletamento del parto per via chirurgica. In media, il 37,4% dei parti avviene con taglio cesareo, con notevoli differenze regionali che comunque evidenziano che in Italia vi è un ricorso eccessivo all’espletamento del parto per via chirurgica. Le regioni che fanno un maggiore ricorso alla tecnica chirurgica sono la Campania e la Sicilia, rispettivamente con il 60% e il 52%, seguite dalla Puglia con poco meno del 50%. La regione più “virtuosa è la Toscana, con un 24%.
Rispetto al luogo del parto si registra un’elevata propensione all’uso del taglio cesareo nelle case di cura accreditate in cui si registra tale procedura in circa il 61,4% dei parti contro il 34,3% negli ospedali pubblici. Il parto cesareo è più frequente nelle donne con cittadinanza italiana rispetto alle donne straniere, nel 27,8% dei parti di madri straniere si ricorre al taglio cesareo mentre si registra una percentuale del 39,3% nei parti di madri italiane.