Secondo un nuovo studio della Lund University di Londra, esiste un rischio concreto e considerevole che i rifiuti di microplastica dispersi nell’ambiente possano, con il tempo, assumere dimensioni nanoscopiche.
I ricercatori dell’Ateneo londinese hanno verificato quanto accadeve ai coperchi in plastica delle tazze di caffè da asporto allorchè venivano sottoposti, in laboratorio, ad esperimenti che simulavano il degrado della plastica che finisce nell’oceano.
Non è infatti un mistero che la maggior parte dei detriti marini sia costituita ormai da plastica di varia forma e provenienza.
Fatti i debiti calcoli, è stato accertato che il mare raccoglie il dieci per cento di tutta la plastica prodotta a livello mondiale.
Questi rifiuti sono ovviamente soggetti a degrado, sia chimico che meccanico.
I raggi UV del Sole contribuiscono a questo processo; come pure le onde, che spingono i rifiuti di plastica galleggianti contro gli scogli o contro il fondo marino o contro altri detriti.
Esiste quindi il rischio che questi rifiuti di plastica si disintegrino ulteriormente in pezzettini ancora più minuscoli di come vengono rilasciati?
La comunità di ricerca non è concorde sul fatto che il processo di degradazione si fermi al livello dei frammenti di plastica leggermente più grandi – le microplastiche – o invece continui producendo particelle ancora più piccole, le cosiddette nanoplastiche.
I ricercatori stanno provando a risolvere il quesito, sottoponendo il materiale plastico alla degradazione meccanica in condizioni di laboratorio.
“Siamo in grado di dimostrare che l’effetto meccanico sulla plastica provoca la sua disintegrazione fino ad arrivare a frammenti di dimensioni nanometriche” afferma Tommy Cedervall, ricercatore di chimica alla Lund University.
Lo studio si riferisce al problema più ampio di ciò che accade alla plastica nell’ambiente e in che modo questo dissolvimento possa avere conseguenze sugli organismi animali e sugli esseri umani.
Le particelle di plastica di dimensioni nanometriche misurano pochi milionesimi di millimetro; sono quindi estremamente piccole, tanto che è stato dimostrato che possono penetrare a fondo nei corpi degli organismi viventi.
Lo scorso anno, in un precedente studio della stessa università, i ricercatori avevano dimostrato che le particelle di plastica di dimensioni nanometriche possono entrare nel cervello dei pesci, causando danni d’organo che probabilmente si ripercuotono sul comportamento degli animali.
Sebbene lo studio sia stato condotto in laboratorio e non osservato in natura, indica che le nanoplastiche all’interno degli organi di un vivente non possono che avere conseguenze negative.
Concordemente a questo studio, giungono i risultati di un’ altra ricerca, condotta dall’Università di Plymouth, sempre nel Regno Unito, dalla ricercatrice Maya Al Sid Cheikh sulle capesante dell’Oceano Atlantico.
Lo studio ha osservato che gli animali, esposti per sei ore alle nanoplastiche in laboratorio, rivelavano nei loro tessuti la presenza di miliardi di nanoparticelle (diametro di 250 nanometri, cioè 0,00025 millimetri), dai reni alle branchie, a tutto il corpo.
I nanoframenti hanno richiesto 48 giorni per scomparire.
“Le nanoparticelle vengono assorbite rapidamente dagli organismi marini e in poche ore vengono distribuite nella maggior parte degli organi principali”, spiega la ricercatrice.
“Comprendere se le particelle di plastica siano assorbite attraverso le membrane biologiche e si accumulino negli organi è fondamentale per valutare il rischio che tali particelle rappresentano per la salute umana”, evidenzia Ted Henry, docente di tossicologia ambientale all’ Heriot-Watt University di Edimburgo.
Fino ad oggi, una serie di altri recenti studi si era concentrata sulle microplastiche e sulla loro influenza negli organismi viventi, ma ora hanno preso il via diversi progetti per individuare e verificare gli effetti dei residui ancora più piccoli, le nanoplastiche.
“E’ importante iniziare a mappare ciò che accade realmente alla plastica che viene disintegrata in natura”, conclude Tommy Cedervall.