Sembrerebbe una nuova fase per le aree protette, quella inaugurata nell’ambito della conferenza nazionale “La Natura dell’Italia”, svoltasi a Roma l’11 ed il 12 Dicembre, voluta dal Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando e organizzata in collaborazione con Federparchi, Unioncamere, Fondazione Sviluppo Sostenibile e Università La Sapienza.
La mattinata di apertura ha visto ribaditi alcuni concetti fondamentali, tra i quali l’improrogabile necessità di superare la visione miope e di breve periodo che ha portato il paese a considerare la questione ambientale soltanto in occasione di tragici eventi.
Julia Marton-Lefèvre, che dirige l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), elogiando le meraviglie del nostro ricchissimo patrimonio naturale ha sottolineato come natura e biodiversità possano aiutare l’economia del paese a superare l’attuale momento di ristagno anche grazie al turismo naturalistico, settore in cui l’Italia si collocherebbe al quinto posto nel mondo.
La questione è stata approfondita in una delle quattro sessioni tematiche pomeridiane, dal titolo “Aree Protette e Rete Natura 2000 strumenti per un nuovo sviluppo economico e territoriale del Paese”. La partecipazione è stata forte: l’aula, affollatissima, ha ospitato in 3 ore circa 35 interventi. La sessione, promossa da Federparchi e coordinata dal prof. Luigi Boitani dell’Università “La Sapienza” di Roma, è stata forse il momento più “tecnico” della giornata, avendo riunito esperti e portatori dei vari interessi a confrontarsi sul documento preparatorio della conferenza, che raccoglieva in 13 punti riflessioni e proposte per un nuovo modello di sviluppo delle aree protette.
Obiettivi quantificabili. L’idea avanzata dal documento preparatorio, redatto dai 14 componenti del tavolo tematico, comprende una serie di obiettivi che ogni area protetta, organismo deputato in primo luogo alla conservazione della natura, dovrebbe per sé individuare: obiettivi specifici in quanto unico ed insostituibile è il capitale naturale tutelato e conservato. Gli obiettivi inoltre dovranno essere quantificabili al fine di valutarne l’effettivo raggiungimento in un sistema di trasparenza, meritocrazia ed efficacia anche nell’allocazione delle risorse, in modo da ricompensare le aree protette con i migliori risultati.
Identificare le minacce.L’identificazione di obiettivi di conservazione non può però prescindere dalla conoscenza scientifica, spesso fragile, e dal conseguente e regolare monitoraggio del patrimonio di diversità biologica di cui si dispone. Corrado Battisti, naturalista della Provincia di Roma – Ufficio Parchi, ha sottolineato come essenziale sia non soltanto conoscere il valore di ciò che si protegge, ma anche l’entità e l’identità di ciò che lo minaccia, proponendo di affiancare ad atlanti della biodiversità (in molti casi presenti, ma incompleti o da aggiornare) atlanti delle minacce, ed in linea col modello anglosassone applicare ai parchi la SWOT analysis, strumento di pianificazione atto a valutare punti di forza, debolezza, opportunità e minacce.
L’agricoltura nelle aree protette. Anche il rapporto con l’agricoltura è stato oggetto di discussione: molti dei territori su cui insistono parchi, riserve, siti Natura 2000, sono infatti a vocazione apertamente agricola. Annalisa Saccardo di Coldiretti-Area Ambiente e Territorio, ha ricordato come un quarto dell’agricoltura venga oggi esercitata in aree protette, da aziende che in molti casi hanno contribuito, con il lavoro svolto, alla creazione di reti ecologiche. Portando l’esempio dei Sibillini, la dott.ssa Saccardo ha dimostrato come il binomio agricoltura/parco possa essere sinonimo di eccellenza nello sviluppo locale: tramite la pratica di una zootecnia estensiva, grazie a produzioni di qualità magari identificate da un marchio, e con l’ausilio di agriturismo e ricettività di qualità.
Le aree marine protette. Se dalla discussione è emersa la necessità di dare maggiore spazio alle aree marine protette, per le quali la stessa definizione di conservazione coinvolge variabili tuttora oggetto di studio, in più di un intervento si è evidenziato quanto poco opportuno sia equiparare il sistema dei grandi parchi a quello delle aree Natura 2000. Marina Cerra, della Regione Piemonte, ha spiegato come per la maggior parte di questi siti, spesso di grandi dimensioni, gestiti da enti locali e con una disponibilità economica estremamente limitata, portare avanti il monitoraggio sistematico e continuativo di cui si parla nel documento preparatorio diventi un’impresa più che ardua.
Conservazione e sviluppo: opportunità e rischi. C’è un punto sul quale l’assemblea si è interfacciata in maniera quasi unanime, e riguarda la possibilità che conservazione e sviluppo economico e territoriale possano muoversi parallelamente e nella stessa direzione. Con la dovuta attenzione però, che il significato dei termini in gioco sia per tutti chiaro e condiviso. Dal pericoloso equivoco cui il delicato tema si presta ci ha messi in guardia il prof. Francesco Spada, botanico e docente all’Università “La Sapienza” di Roma, che al tavolo tematico ha partecipato in maniera attiva, collaborando in via preliminare alla redazione del documento preparatorio ed intervenendo più volte nel corso del dibattito.
“Il rischio è che con epiteti come “verde” e “bio” la cosiddetta economia verde cerchi di attenuare quelle che invece sono state le proposizioni più deteriori per la conservazione stessa negli ultimi decenni.” Della green economy, il prof. Spada teme le ingenuità tecnico-scientifiche, che alla vana presunzione di poter arrestare le conseguenze del cambiamento climatico rispondono con una ondata di proposizione tecnologica.
Quello che viviamo, è tuttavia il risultato del modello culturale dominante almeno a partire dall’ultimo dopoguerra. “La cinematografia, la letteratura di oggi esaltano l’abbandono della campagna, misurando il progresso di un paese con la quantità di popolazione contadina che annualmente si trasferisce in città”. “L’economia verde” -prosegue il prof. Spada- “esiste, ma è un’economia basata sulle attività tradizionali, e poco c’entra con un’imprenditoria che si dipinge di verde per proporci un nuovo tipo di avventura tecnologica, per spremere ancor di più quel che si è già spremuto”.
Il comitato riunitosi mercoledì scorso sembra aver intuito il pericolo di questa retorica, tanto da aver sottolineato in più di un’occasione l’importanza di considerare obiettivi di conservazione in un’ottica non necessariamente antropocentrica.
Pertanto, gettate le fondamenta di un lavoro che ha tutte le carte in regola per considerarsi proficuo, non resta che lanciare un appello, lo stesso con cui il prof. Spada ha strappato alla platea un lungo e sentito applauso: che le competenze dei naturalisti, troppo spesso interpellati a rimediare a danno fatto, vengano coinvolte già nelle fasi di analisi, decisione e progettazione degli interventi.