Secondo un recente studio, condotto da diverse università in collaborazione con organizzazioni internazionali e pubblicato sulla rivista PLOS Biology, la diversità biologica del pianeta non è adeguatamente tutelata. Infatti, a causa del risparmio di denaro per l’acquisizione di nuove aree protette, la maggioranza delle specie a rischio potrebbe estinguersi in poco tempo.
Il verdetto del team di scienziati è severo: l’85% delle 4118 specie considerate globalmente minacciate non sono adeguatamente salvaguardate all’interno delle esistenti aree protette e rischierebbero, in un futuro neanche troppo lontano, l’estinzione. E ancora: il 17% di questi mammiferi, uccelli e anfibi minacciati non risulta attualmente censito in nessuna delle aree protette esistenti, ergo, rischia molto più degli altri.
Come Carlo Rondinini, ricercatore al Dipartimento di biologia e biotecnologie dell’Università di Roma “La Sapienza”, ha spiegato a Gaianews.it lo studio nasce per promuovere il raggiungimento dei target di Aichi, stabiliti nel 2010 nel corso della Convention of Biological Diversity (CBD). In quell’occasione, i 193 paesi firmatari si impegnavano ad incrementare entro il 2020 la superficie globale delle aree protette, al fine di raggiungere il 17% partendo da una base del 13%.
L’Italia, per una volta, non sarebbe messa troppo male. “Il problema”, sottolinea Rondinini, “non è tanto raggiungere l’obiettivo del 17%, quanto piuttosto farlo in maniera efficace, proteggendo aree realmente importanti per la biodiversità”.
Secondo gli scienziati infatti, ad ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo sarebbe il criterio utilizzato in fase decisionale: troppo spesso, nella scelta dei territori da destinare ad aree protette si tenderebbe a minimizzare i costi di acquisizione, scegliendo aree di poco valore naturalistico, piuttosto che a tutelare il maggior numero di organismi a rischio scegliendo aree davvero importanti.
Stando ai calcoli citati dallo studio, per coprire tutte quelle che andrebbero doverosamente riconosciute come Important Bird Areas (IBA) servirebbero circa 58 miliardi di dollari l’anno. Cifre importanti, ma ancora modeste se paragonate alle voci di bilancio di un qualunque paese occidentale. Tuttavia, nonostante già nel 2010 la CBD stabilisse requisiti cristallini, -“i territori da tutelare”-, si legge nel testo, devono essere “importanti per la biodiversità” o comunque “ecologicamente rappresentativi”,- molte aree protette nascevano in territori agricoli, di scarso valore, strappati probabilmente ad un buon prezzo.
Lo studio dimostra come questo modo di procedere sia decisamente infruttuoso, almeno ai fini della salvaguardia della biodiversità. Rielaborando i dati provenienti dalle liste rosse dell’IUCN (International Union for Conservation of Nature), gli scienziati hanno creato un modello con l’ausilio del software Marxan. Questi i risultati: se per raggiungere il dodicesimo target di Aichi, e quindi il 17% di superficie globale coperta da aree protette entro il 2020, si continuasse a perseguire la logica dell’economia e del risparmio, arriveremmo a tutelare solo il 6% in più dei vertebrati a rischio.
L’Italia, purtroppo, non sembra sottrarsi a questa logica, “Basti pensare”, spiega Rondinini, “che a fronte di una quota altimetrica media, nel nostro paese, di 300-350 metri s.l.m, le nostre aree protette si trovano mediamente a 900 metri s.l.m, a testimonianza di come vengano spesso privilegiati territori di montagna, dal minor valore economico, a scapito della fascia collinare e di quei pochi, ultimi lembi ancora integri di aree planiziali che sarebbe invece importantissimo proteggere”.
Invertire la tendenza è però ancora possibile, come dimostrano i quattro scenari alternativi proiettati dagli autori. Ad esempio, se ad essere preferite fossero, anziché le aree a minor valore economico, quelle che ospitano il maggior numero di specie a rischio tra quelle censite dall’IUCN, si spenderebbero 42,5 miliardi di dollari l’anno, ma si centrerebbero obiettivi di conservazione decisamente migliori.