Gli scienziati da tempo ormai mettono in guardia sul fatto che la pesca indiscriminata, analogamente all’agricoltura sulla terra, ha un enorme impatto sugli ecosistemi marini e sulla biodiversità, e che va limitata ad una quantità massima consentita. Ora una ricerca mostra come la crescita della quantità di pescato si è sostanzialmente fermata ed è necessario ridurre la pesca e limitarla ad livelli sopra i quali l’ambiente marino non riesce a sostenenere il ritmo del naturale ripopolamento, con conseguente riduzione di biodiversità e perdita permanente di una delle principali fonti proteiche per circa 2 miliardi di persone nel mondo.
Dal 1950 alla fine degli anni ’80 si è passati da 19 milioni di tonnellate di pesce pescato all’anno a 90 milioni di tonnellate, per poi scendere gradualmente a 87 milioni di tonnellate nel 2005, con un aumento dal 1950 del 500%. Secondo gli scienziati stiamo ancora pescando troppo, e questo sovrasfruttamento del mare potrebbe portare a danni irreversibili per la vita marina e per l’uomo, che dipende in modo sostanziale da questa risorsa.
I problemi per la vita marina sono iniziati con l’avvento della pesca industriale moderna, ossia quando iniziò l’uso di imbarcazioni alimentate da combustibili fossili nel 1880 circa, coi primi pescherecci a vapore inglesi e l’uso delle prime reti a strascico. Questi sistemi hanno rapidamente esaurito la popolazione costiera di sogliole e altri pesci sui fondali, e le flotte hanno dovuto muoversi in mare aperto, in progressiva espansione in tutto l’Atlantico nord-orientale. Uno sviluppo simile è avvenuto al largo di New England, negli Stati Uniti, e lungo la costa del Giappone, dove le popolazioni ittiche locali, già molto ridotte da operazioni condotte con imbarcazioni a vela, sono state messe in ginocchio.
Le conseguenze della prima e della seconda guerra mondiale hanno visto sia una ripresa di questi stock che un aumento nella sofisticazione dei pescherecci industriali, che sono stati dotati di motore diesel e hanno potuto sfruttare più sofisticati sistemi di eco-localizzazione e attrezzature come la refrigerazione, che consentono spostamenti più lunghi. Nel 1950, l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni Unite ha iniziato ad emettere le raccolte annuali di statistiche globali della pesca, che hanno documentato che le quantità pescate globali sono aumentate durante il 1960 e 1970, anche se la velocità con cui questo aumento procedeva è lentamente diminuita. Alla fine del 1980, il pescato a livello mondiale ha cessato di aumentare e si è raggiunto un picco di 90 milioni di tonnellate se si tiene conto della sistematica sovrastima delle quantità pescate da parte della Cina. Il lento calo di circa mezzo milione di tonnellate all’anno che poi ne seguì non si è invertito da allora, ed è improbabile che avvenga mai più in futuro.
Questa diminuzione si è verificata, in sostanza, perché il tasso al quale i nuovi stock ittici (per esempio di pesce che vive nei mari profondo) venivano raggiunti a partire dalla fine degli anni ’80 in poi non è riuscito a compensare il tasso al quale sono state esaurite le ‘tradizionali’ scorte. Inoltre, il numero di nuove aree sfruttate è diminuito linearmente nel tempo.
Utilizzando un indice di misura della produzione primaria richiesta (PPR), ossia della quantità di microorganismi e alghe che compongono il plancton e che stanno alla base della catena alimentare, i ricercatori sono riusciti ad effettuare una misura diretta delle aree che si possono considerare ormai sfruttate dalla pesca industriale, quando questo indice raggiunge dei livelli troppo elevati in quell’area.
Questa soglia misura l’impatto ecologico della pesca, e mostra che essa dipende dalla quantità della produzione primaria locale disponibile per sostenere una produzione di lungo termine.
I risultati di questo studio dimostrano che la crescita della pesca marittima del mondo negli ultimi 56 anni è stata portata avanti con una logica sequenziale, ossia quando un’area diventava meno produttiva ci si spostava in un’altra. I pescherecci ormai coprono la maggior parte degli oceani del mondo, se si escludono aree a bassa produttività e acque lontane come le regioni antartiche. Il declino delle zone recentemente sfruttate fin dalla fine del 1990, che corrisponde a un calo delle campagne di pesca a livello mondiale, implica che l’era della grande espansione è giunta al termine. Con un limitato spazio di espansione e con un eccessivo utilizzo della produzione primaria in molte regioni, l’unica via verso la sostenibilità della pesca globale passa attraverso la riduzione della quantità di pesce pescato e – analogamente per le foreste e la fauna selvatica sulla terraferma – la creazione di aree per la riproduzione e la protezione della vita marina. Se i governi non agiranno in fretta, nei prossimi decenni almeno due miliardi di persone potrebbero essere coinvolte in una crisi alimentare (e proteica) senza precedenti.