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Le specie evolvono “correndo”, come diceva la Regina Rossa di Alice

"Be', nel nostro paese" disse Alice, ancora un po' trafelata, "di solito si arriva da qualche altra parte, quando si corre per tutto il tempo che abbiamo corso noi"

Scritto da Marta Gaia Sperandii il 04.08.2014

Come si evolvono le specie nel corso del tempo? Un quesito al quale James O’Dwyer dell’Università dell’Illinois e Ryan Chisholm dell’Università di Singapore rispondono con una teoria ispirata alla “Regina rossa”, celebre personaggio del racconto “Attraverso lo specchio, e quel che Alice vi trovò”, di Lewis Carroll.

Regina di cuori

La regina di cuori nella versione Disney del romanzo di Carrol

Il nuovo modello incorpora il cosiddetto “effetto Regina Rossa”, ipotesi evoluzionistica formulata negli anni ’70 da Lee Van Valen, secondo la quale gli organismi, per scongiurare la minaccia dell’estinzione e vincere l’aspra competizione interspecifica, sarebbero costretti ad incrementare costantemente la loro “fitness”, ovvero l’attitudine a sopravvivere ed adattarsi alle condizioni di un ambiente che pure è in continuo cambiamento.

“Be’, nel nostro paese” disse Alice, ancora un po’ trafelata, “di solito si arriva da qualche altra parte, quando si corre per tutto il tempo che abbiamo corso noi”.
“Ma che paese lento!” esclamò la Regina. “Qui, invece, ti tocca correre più forte che puoi per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte, devi correre almeno due volte più forte”.

Correre per non estinguersi, per stare al passo con gli altri, evolversi per tagliare il traguardo della sopravvivenza.

Secondo il “modello medio di campo” formulato da O’Dwyer e Chisholm le nuove specie godono di vantaggi competitivi che consentono loro di moltiplicarsi, ma che nel corso del tempo vengono superati da ulteriori vantaggi sviluppati da altre specie.

Il modello prende il nome dalla “teoria di campo”, che descrive il modo in cui i campi, generalmente simboleggiati da un valore nel tempo e nello spazio ma che in quest’ambito coincidono con distribuzione ed abbondanza delle specie, interagiscono con la materia. L’utilità di un modello, in ecologia, consiste nella possibilità di effettuare previsioni e diagnosticare problematiche a livello ecosistemico.

L’ipotesi dei due scienziati va peraltro a contrastare la teoria neutrale della biodiversità, sviluppata da Stephen Hubbell negli anni ’70. Questa reputava il rarefarsi o l’estinguersi di un organismo come la conseguenza di un processo puramente causale e, non tenendo conto del fenomeno della competizione considerava tutte le specie egualmente stanti rispetto alla dura legge della selezione.

Se una teoria del genere è bene in grado di prevedere distribuzione ed abbondanza di una specie però, risulta significativamente fragile nel momento in cui si verifichino, nel corso del tempo, cambiamenti all’interno della comunità.

“Immaginate questi modelli ecologici lungo uno spettro”, spiega O’Dwyer. “Ad una estremità abbiamo questa teoria neutrale con pochissimi parametri, meccanismi e dinamiche molto semplici. All’altro capo, tuttavia, abbiamo modelli con i quali cerchiamo di trasformare ogni dettaglio in un parametro. La parte più dura, -prosegue lo scienziato-, è stata allontanarsi di un paio di passi dalla teoria neutrale, senza però farsi risucchiare dall’altra, complicata, estremità dello spettro”.

Un modello più realistico quindi, che tiene conto delle differenze esistenti tra le specie per comprendere meglio la complessità dei sistemi ecologici. Lo studio, supportato dalla Templeton World Charity Foundation, è stato recentemente pubblicato su Ecology Letters.

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