Il 2013 è stato un anno molto importante per la scienza, soprattutto per la fisica. Dai festeggiamenti per i cinquant’anni del Dott. Who, uno dei più famosi viaggiatori nel tempo, alle meraviglie dei computer quantistici e del grafene, per finire con la forma “a biglia” degli elettroni. Abbiamo fatto il punto della situazione sugli esopianeti e sulla materia ed energia oscura. Visto che la fine del 2013 è ormai alle porte, possiamo ripercorrere le tappe più significative del nostro anno insieme.
Il bosone di Higgs. Dopo decenni di ricerche finalmente è arrivata la conferma dell’esistenza del bosone di Higgs, che è stata premiata con il Nobel a Peter Higgs e François Englert. Abbiamo fatto il punto della situazione con il Prof. Luciano Maiani. Se da un lato il bosone di Higgs è l’ultimo pezzo del puzzle del Modello Standard della fisica delle particelle, dall’altro questo stesso modello non spiega alcuni aspetti fondamentali del nostro Universo. La minuscola massa del neutrino, la materia ed energia oscura, la gravità. Il 2014 sarà l’inizio di un periodo-chiave per la fisica delle particelle, visto che i progetti in campo non mancano (speriamo non manchino i finanziamenti!).
La mappa del cosmo di Planck. Dopo ben quindici mesi di osservazione, il telescopio spaziale Planck ci ha restituito la più dettagliata mappa dell’Universo mai ottenuta prima. Mappando il fondo cosmico a microonde quando aveva “solo” 380.000 anni, ha dimostrato che il nostro modello attuale dell’inflazione dell’Universo non è così preciso come si pensava. Più in dettaglio, a grandi scale angolari le fluttuazioni della temperatura della radiazione cosmica di fondo a microonde (o CMB, cosmic microwave background) non corrispondono a quelle previste dal modello standard: il loro segnale è meno intenso di quanto implicherebbe la struttura a scala angolare più piccola rivelata da Planck. Non solo: le temperature medie nei due emisferi opposti del cielo presentano un’asimmetria, inspiegabile secondo il modello standard, ma che potrebbe gettare luce anche sulla distribuzione della materia ed energia oscura.
I neutrini. A quasi 25 anni dalla pionieristica idea di rilevare neutrini nelle profondità del ghiaccio, la IceCube Collaboration annuncia l’osservazione di 28 eventi di rilevazione di particelle ad altissima energia che costituiscono la prima solida prova dell’osservazione di neutrini provenienti da acceleratori cosmici al di là del nostro sistema solare. Ma c’è di più. Nel mese di marzo i fisici hanno annunciato un’ulteriore prova della teoria secondo cui i neutrini si trasformano durante il viaggio che li conduce a noi: per la terza volta è stata osservata la mutazione di un neutrino da una famiglia all’altra. La mutazione è stata catturata nel fascio di neutrini che dal CERN di Ginevra viene spedito ai rilevatori di OPERA (acronimo di Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus), nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN).
A luglio in occasione di una conferenza internazionale tenutasi alla European Physical Society, i responsabili dell’esperimento TK2 in Giappone hanno confermato l’oscillazione del neutrino dal sapore muonico a quello elettronico. I neutrini possono avere tre differenti identità o “sapori”: muonico, tauonico ed elettronico, e possono passare da un sapore ad un altro durante la loro propagazione mediante un processo che i fisici hanno battezzato “oscillazione”. Questo fenomeno è stato teorizzato per la prima volta dal fisico italiano Bruno Pontecorvo nel 1957 e, qualche anno dopo, i suoi effetti sono stati osservati grazie all’esperimento Homestake di Ray Davis, in cui si rilevò un deficit di neutrini elettronici prodotti dal Sole. Ecco una prima conferma dell’ipotesi che i neutrini cambiano a volte sapore durante il viaggio verso la Terra. Con una partecipazione di ricercatori italiani dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), la collaborazione internazionale T2K ha dimostrato in modo definitivo un’oscillazione di questa particella tra due sapori – da muonico a elettronico – prevista solo sul piano teorico, ma a cui ancora mancava una conferma dai laboratori sperimentali. Come reso pubblico oggi alla conferenza della “European Physical Society” a Stoccolma, grazie al rivelatore Super-Kamiokande. La scoperta conferma un risultato preliminare ottenuto nel 2011 dallo stesso esperimento e apre le porte a nuove ipotesi sulla prevalenza della materia sull’antimateria nei primi istanti della vita dell’Universo dopo il del Big Bang.
Confermato il decadimento del mesone Bs in due muoni. Una delle più cogenti verifiche a cui è mai stato sottoposto il Modello Standard è arrivata nel mese di luglio dai risultati presentati a Stoccolma alla Conferenza della European Physics Society (EPS). Gli esperimenti CMS e LHCb del Large Hadron Collider di Ginevra hanno reso pubbliche le misure concernenti uno dei processi più rari in fisica: il decadimento del mesone Bs in due muoni. Le nuove misure sono davvero incoraggianti. Mostrano infatti che, mediamente su un miliardo di mesoni Bs, solo una manciata decade in una coppia di muoni, confermando in toto le previsioni del Modello Standard. Entrambi gli esperimenti hanno presentato risultati con un’elevata significanza statistica – più di 4 sigma per ogni esperimento. Quattro grandi rivelatori del CERN si occupano di testare il Modello Standard: ATLAS, CMS, LHCb e Alice. In particolare, LHCb è progettato per studiare il comportamento dei quark e dei cosiddetti decadimenti rari, che non sono molto frequenti ma molto significativi sul piano teorico per comprendere i “confini” della fisica delle particelle.
Entanglement e wormholes. Connettere questi due fenomeni può sembrare, in prima battuta, fantascienza. In realtà nel mese di dicembre sono stati pubblicati alcuni studi che tracciano un parallelismo quasi perfetto tra questi due “modelli teorici” per cercare di spiegare la gravità in termini quantomeccanici. Ovviamente si tratta di convergenze funzionali puramente teoriche: da un lato recenti studi che dimostrano l’esistenza di diversi tipi di entanglement definibili sulla base degli elementi che in essi intervengono: numero di particelle, tipologia, proprietà di cui sono dotate (continue e/o discrete, ad esempio, tempo di emissione di e/o rotazione). Ne è stata addirittura elaborata una tassonomia (l’articolo, intitolato Entanglement Polytopes: Multi-Particle Entanglement from single-particle information, è appena stato pubblicato su Science), il che rende molto difficile mantenere, in ogni caso, il parallelismo. Dall’altro il concetto stesso di wormhole o ponte di Einstein-Rosen è un costrutto matematico che, allo stato attuale dei nostri mezzi tecnologici, sembra molto lontano dal poter essere scovato nell’Universo.
Anche i fotoni potrebbero avere massa a riposo. I fotoni sono i quanti di radiazione elettromagnetica. Una convinzione comune è che non abbiano massa a riposo ma ciò non basta ad escludere che possano, prima o poi, decadere in altri tipi di particelle. La convinzione comune è la seguente: se i fotoni avessero una massa a riposo, allora decadrebbero in media dopo un miliardo di miliardi di anni. Questo spiegherebbe perché anche nella CMB, la radiazione cosmica di fondo, che risale a circa 13,8 miliardi di anni fa, si trovano solo debolissimi indizi a sostegno di un suo possibile decadimento.
Massa e decadimento sono concetti complementari. Se una particella non ha massa non c’è nulla di più leggero in cui possa decadere. Per quanto riguarda il fotone, la teoria in realtà non esclude la possibilità che abbia una massa a riposo, anche se una serie di prove sperimentali esclude che abbia una massa superiore a 10 alla -18 elettronvolt, o a 10 alla -54 chilogrammi. Uno studio effettuato da Julian Heeck del Max-Planck-Institut per la fisica nucleare a Heidelberg, che in un articolo pubblicato sulla rivista Physical Review Letters spiega in che modo i fotoni abbiano massa e, di conseguenza, prima o poi decadano in particelle più leggere – come i neutrini e gli antineutrini. C’è però un problema: se questo è vero, è anche possibile che i fotoni decadano in particelle in grado di andare più veloci della luce. L’ipotesi che i fotoni abbiano una massa e una vita limitata non è stata mai approfondita almeno per un motivo: gli astronomi osservano quanti di radiazione elettromagnetica provenienti da oggetti cosmici distanti miliardi di anni di anni luce senza mai aver rilevato nulla che possa far supporre ad un simile evento. Per cercare indizi di questo possibile decadimento, Julian Heek ha esaminato i dati relativi alla radiazione cosmica di fondo a microonde, un residuo del Big Bang che risale a quando l’Universo era molto giovane e aveva appena 380.000 anni. Gli indizi di possibili decadimenti sono davvero pochi.
D’altronde è risaputo: i fotoni sono stati al centro di gradi rivoluzioni in fisica ma le loro caratteristiche sono ancora un puzzle in parte irrisolto. Basandosi sul Modello Standard delle particelle elementari, Julian Heeck ha calcolato i limiti teorici di durata del fotone: il limite inferiore della sua vita deve essere di almeno tre anni. Un valore estremamente ridotto; c’è da dire che, se i fotoni avessero una massa, dovremmo essere circondati da fenomeni che suggeriscono il loro decadimento. Ma non è così. Come mai? Perché quei tre anni sono calcolati nel sistema di riferimento del fotone, che viaggia a velocità relativistiche, ovvero a quelle della luce, appunto. I fotoni dovrebbero decadere in particelle più leggere e più veloci: Julian Heeck ricorda che c’è una sola particella che potrebbe essere ancora più leggera, ossia il più leggero tra i tre tipi di neutrini. L’idea che alcuni neutrini possano viaggiare più veloce della luce sembra violare una requisito base della Relatività. Ma se si accetta che il fotone ha quasi massa nulla, questa ipotesi è compatibile con la Relatività che afferma che nessuna particella avente massa può viaggiare più veloce di una particella a massa nulla. Per la teoria della Relatività questo significa che l’orologio di quel fotone scorre molto più lentamente degli orologi di altri sistemi di riferimento: a quei tre anni del sistema di riferimento del fotone corrispondo infatti circa un miliardo di miliardi di anni (10 alla 18 anni) nel nostro sistema di riferimento.
Considerato che l’universo ha 13,8 miliardi di anni, non stupisce che gli indizi del possibile decadimento dei fotoni siano così rari. Sarebbe una bella fortuna trovare un decadimento attribuibile ad un fotone; ciò potrebbe accadere solo perché, nel numero incredibilmente alto di fotoni che viaggiano nell’Universo, a uno di quelli relegati agli estremi della coda statistica dei tempi medi di decadimento può capitare di avere una vita tanto più breve della media. La questione della possibile massa e del decadimento del fotone resta allora ancora aperta.
LIGO: un nuovo modo per ascoltare i Buchi Neri. Una nuova tecnologia, che sfrutta la strumentazione usata per studiare le onde gravitazionali, si sta rivelando molto proficua per intercettare le increspature dello spazio-tempo teorizzate dalla Relatività Generale di Einstein nel 1916. L’astronomia delle onde gravitazionali si sta rivelando un settore chiave per la fisica teorica e promette di rivoluzionare in breve tempo la nostra comprensione dell’Universo. Ve ne convincerete leggendo l’articolo di David Blair pubblicato su Nature Photonics: Enhanced sensitivity of the LIGO gravitational wave detector by using squeezed states of light.
Usando il LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory), un progetto congiunto tra gruppi di ricerca afferenti al California Institute of Technology (Caltech) e al Massachusetts Institute of Technology (MIT), peraltro sponsorizzato dalla National Science Foundation (NSF), sarebbe possibile ascoltare il Big Bang e i Buchi Neri, esplorare la fine e l’inizio del tempo. Il LIGO usa i raggi laser per osservare le onde gravitazionali previste dalla teoria della Relatività Generale. Già verso la fine del 2004 LIGO si è messo alla ricerca di onde gravitazionali risultanti da eventi astronomici in cui sono coinvolte grandi masse in accelerazione: l’esplosione di una supernova, la nascita di Buchi Neri, la collisione e coalescenza di stelle di neutroni, la rotazione di stelle di neutroni. Il passo per giungere alle radiazioni di fondo che portano con s tracce della storia dei primi momenti di vita del nostro Universo è breve.
Per “ascoltare il Big bang e i Buchi Neri” il sistema di specchi che compone il rilevatore è stato isolato e, grazie alla quantum squeezing, è stato possibile abbattere, anche se non totalmente, il rumore di fondo proveniente dalle fluttuazioni quantistiche. In questo modo i ricercatori sono convinti sia possibile abbattere anche l’ultima barriera che limiterebbe l’efficacia delle osservazioni effettuate con strumenti simili. Si tratta della barriera di misurazione quantistica definita dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Se non vi è alcun limite minimo alla quantità di energia misurabile, significa che anche le onde gravitazionali estremamente sottili saranno rilevabili. Non è un’aspettativa utopistica: gli autori dell’articolo precisano che le tecnologie usate sono d’avanguardia: specchi perfetti e luce laser molto più potente che in qualunque altro sistema di misura fino ad oggi usato. Anche di fronte a questi primi “risultati” restano molte domande: fino a che punto sarà abbattuta l’indeterminazione o, detto altrimenti, qual è il livello di probabilità delle misurazioni; come “assemblare” in modo coerente le informazioni e i dati derivanti dall’”ascolto” del Big Bang. Last but not least il problema del tempo. Non per tutte le teorie sull’origine dell’Universo il tempo ha avuto origine con il Big Bang. Insomma: il quadro teorico in cui si muovono queste ricerche va ancora spiegato o, forse, andrebbe meglio implementato.
La discontinuità dello spazio-tempo. Granuloso o liscio, continuo o discreto? Com’è realmente lo spazio-tempo, la struttura quadridimensionale dell’Universo introdotta dalla teoria della relatività di Einstein? A fare il punto sugli ultimi risultati in questo campo di studi arriva proprio il giorno della vigilia di Natale un articolo di Stefano Liberati, coordinatore del gruppo di Fisica delle Astroparticelle della Scuola Internazionale Superiore di studi Avanzati (Sissa) di Trieste. Lo studio, apparso sulle pagine di Classical and Quantum Gravity, è stato selezionato dalla rivista tra gli Highlight papers del 2013 e si intitola Tests of Lorentz invariance: a 2013 update.
Qual è il problema? Se lo spazio-tempo a piccolissime dimensioni presentasse una grana irregolare che nella nostra esperienza diretta non possiamo percepire, questo potrebbe portare a deviazioni dalla Relatività Speciale di Einstein. In alcuni scenari teorici, la non-continuità dello spazio-tempo implica infatti violazioni all’invarianza delle leggi fisiche sotto le cosiddette trasformazioni di Lorentz (che stabiliscono che le leggi della fisica sono le stesse per tutti i sistemi di riferimento inerziali e che sono alla base della relatività speciale). Nello studio, Liberati passa in rassegna tutte le metodologie più promettenti (spesso basate su fenomeni legati all’astrofisica delle alte energie) messe a punto dai fisici a partire dagli anni novanta per testare queste deviazioni dalla fisica standard. In un certo senso i fisici hanno cercato di fare qualcosa di simile con lo spazio-tempo: trovare qualcosa che agisca da microscopio per scoprire se a piccolissime scale di lunghezza c’è davvero un’irregolarità. Nell’articolo è esposto un quadro sistematico degli esperimenti e delle osservazioni che si possono sfruttare per indagare l’esistenza di queste irregolarità. Forse il 2014 sarà un anno fondamentale anche per ulteriori approfondimenti della Relatività.