Abbiamo intervistato Lauri Oksanen, autore con altri colleghi dello studio publicato su Science e riportato su Gaianews circa l’effetto della scomparsa dei grandi predatori sugli ecosistemi.
Domanda: Quando e come è iniziata questa ricerca? Come si è giunti a coniare il termine “cascata trofica”?
Lauri Oksanen: Questa ricerca è iniziata in realtà molto tempo fa, quando Hairston, Smith e Slobodkin (1960, American Naturalist 94: 421-425) hanno osservato che “il verde del mondo” (cioè l’abbondanza di biomassa vegetale) indicasse che gli animali erbivori sono controllati da predatori e, quindi, non possono sfruttare in maniera eccessiva le proprie risorse.
Ho aderito a questo studio nel 1981, analizzando la logica di questa ipotesi e il risultato è stato che il modello dovrebbe valere per gli ecosistemi relativamente produttivi. Nelle aree meno produttive (tundra, steppe aride e semideserte), tuttavia, la vegetazione non può sostenere la densità di erbivori in modo che ci sia un bilancio energetico positivo per i predatori. Così deve esserci un’interazione forte tra erbivori e piante, cioè gli erbivori diventano come i predatori al vertice della catena alimentare (Oksanen, L., S. D. Fretwell, J. Arruda, and P. Niemelä. 1981. Exploitation ecosystems in gradients of primary productivity. American Naturalist 118: 240-261).
Tutto questo modo di vedere, che chiamaremo “top down”, tuttavia, è stato criticato in particolare nel contesto della natura terrestre. Ancora all’inizio del nuovo millennio studio dopo studio si era concluso che le cascate trofiche erano deboli o inesistenti nei sistemi terrestri. Io e una manciata di altri oppositori però, sostenevamo che i problemi con i sistemi terrestri erano tecnici (difficoltà di condurre esperimenti ben progettati che escludessero i predatori su grandi scale spaziali e temporali ), ma pochi erano d’accordo. Negli ultimi anni però, un numero crescente di studi sperimentali e correlati hanno sostenuto l’esistenza di forti effetti top-down anche nei sistemi terrestri.
Il termine “cascata trofica” è spesso attribuita a Steve Carpenter et al. (Carpenter, S. R., J. F. Kitchell, and J. R. Hodgson. 1985. Cascading trophic interactions and lake productivity. BioScience 35: 634-649), ma il concetto è stato utilizzato in precedenza da Robert Paine, che l’ha usato per descrivere le conseguenze della rimozione di una stella marina. (1966, Am Nat. 100:65-75).
Domanda: Quanti specie avete preso in considerazione nel vostro studio?
L.O.: La nostra revisione non si è focalizzata sulle specie, ma sui sistemi. A volte il predatore al vertice può essere una specie, ma può anche essere un gruppo formato da diversi predatori. E’ importante la funzione, non il numero delle specie che la compie. Abbiamo rimesso in gioco le nostre competenze e rivisto tutti i casi di rimozione di predatori al vertice, dove c’erano dati affidabili sulle conseguenze per l’ecosistema.
D.: L’Orso Bruno Marsicano è considerato una sottospecie dell’Orso Bruno ed è minaccaito di estinzione a causa dell’attività umana e della frammentazione del territorio. Il modello della cascata trofica può essere valido anche per questo tipo di Orso e o per il Lupo Appenninico?
L.O.: L’effetto trofico “top-down” della rimozione di un predatore al vertice dipende fortemente dalle azioni intraprese (o non intraprese) dagli esseri umani contemporaneamente. Anche noi possiamo fungere da predatori e con le armi attuali, siamo molto efficienti in questo ruolo. D’altra parte, però, le associazioni venatorie tendono a fare pressione per una legislazione restrittiva, perché è interesse collettivo dei cacciatori aumentare il numero di specie di selvaggina. Quindi, le catene alimentari in cui l’uomo ha sostituito i grandi predatori animali tendono a comportarsi in modo molto diverso dalle catene alimentari naturali: quelle con l’uomo come unico predatore al vertice possono avere una densità di cervi 10 volte superiore e quindi una pressione molto più forte sulla vegetazione rispetto alle catene alimentari sormontate da lupi, orsi e puma (o di alcuni altri grandi felini, vedi Crête 1999, Ecol lettere 2:223-227.). Siccome non conosco il sistema italiano di caccia, non posso dire se l’impatto dei cacciatori italiani imita l’impatto di lupi e orsi.
D: Voi avete affermato che “nonostante questi e altri esempi ben noti, la misura in cui prendono forma gli ecosistemi da tali interazioni non è stata ampiamente presa in considerazione. C’è stata una tendenza a vedere questi episodi come idiosincratici e specifici di alcune specie e di alcuni ecosistemi “. Quali sono i fattori che possono farvi affermare che ogni perdita di grande predatore avrebbe portato ad una “cascata trofica “?
L.O.: Noi non affermiamo che la perdita di ogni grande predatore inneschi una cascata trofica. Prima dell’ impatto causato dall’uomo, la maggior parte degli ecosistemi era compsto da gruppi di grandi predatori, e l’estinzione di uno di questi aveva poca o nessuna conseguenza trofica. Le specie sopravvissute erano pronte e capaci di prendere il sopravvento.Ma quando l’ultimo predatore mammifero, grande a sufficienza per controllare i grandi erbivori, o l’ultimo pesce predatore in grado di controllare pesci planctivori, si sono estinti o gravemente decimati, l’effetto è stato sempre un’esplosione di erbivori (o planktivori), che ha a sua volta profondamente influenzato la vegetazione (o la comunità di plancton), a meno che gli impatti diretti dell’uomo (caccia grossa, pesca di pesci planctivori) non abbiano compensato la mancanza di predatori naturali. Questo è un fatto empirico. Nel documento su Science, abbiamo dovuto concentrarsi sui casi più evidenti; ma si può consultare il nostro libro “Trophic cascades: predators, prey and changing dynamics of nature” (eds. J. Terborgh and J.A. Estes; published 2010 by Island Press, Washington DC) per avere un quadro generale.
D.: Perchè i grandi predatori hanno questo ruolo importante in un ecosistema?
L.O.: Perché in assenza di grandi predatori, i grandi erbivori cominciano ad aumentare in modo esponenziale e l’aumento non si ferma prima che il foraggio non sia gravemente impoverito, e che la mortalità per fame diventi uguale alla natalità. In questa fase, la sopravvivenza di alberi e alberelli è pari a zero e le foreste sono destinate a diventare brughiere, pascoli, gariga, macchia mediterranea …
D.: Nella storia dell’occupazione umana degli habitat, possiamo trovare alcuni eventi di estinzione di grandi animali, ad esempio in Nord America 10.000 anni fa con l’occupazione del territorio da parte dei primi coloni. Lei pensa che gli esseri umani siano responsabili della scomparsa di questi grandi mammiferi?
L.O.: Certo! Già il mio maestro Björn Kurten aveva sottolineato che non c’è un motivo logico per attribuire alle glaciazioni la scomparsa dei grandi mammiferi. Tali cambiamenti si erano verificati più volte durante il Pleistocene e i grandi mammiferi erano sopravvissuti. Ora abbiamo strumenti molto più precisi che possono verificarlo. Il fungo Sporomiella prospera in grandi mucchi di sterco e le sue spore sono conservate nei sedimenti dei laghi. E’ stato così dimostrato che i mucchi di sterco sono scomparsi prima e che il polline di betulla è esploso in seguito, indicando una rapida espansione della vegetazione legnosa [a causa della scomparsa di grandi erbivori, ndr.], a cui è seguito il rapido riscaldamento che ha caratterizzato l’interstadio tardo-glaciale di Bølling-Allerød (che ha avviato la deglaciazione su larga scala).