Il 20 aprile del 2010 il pozzo della piattoforma di perforazione della BP Deepwater Horizon è eslposo. Il pozzo è stato chiuso il 15 luglio dello stesso anno e per tutti quei mesi il petrolio ha continuato a riverarsi in mare. Gli scienziati da subito hanno cominciato ad effettuare studi per valutare l’impatto ambientale di questo disastro e le sue conseguenze. Uno degli studi conferma oggi che il petrolio è entrato nella catena alimentare attraverso il plancton, il nutrimento dei piccoli pesci e dei crostacei. In questo modo gli scienziati hanno dimostrato che l’impatto dell’incidente non ha riguardato solo il lasso di tempo in cui il petrolio è fuoriuscito ed è stato recuperato, ma perdura ben più al ungo nel tempo.
Il petrolio che è una miscela complessa di idrocarburi e altre sostanze chimiche, contiene idrocarburi policiclici aromatici (IPA) che lo rendono riconoscibile alle analisi.
“La nostra ricerca ha contribuito a determinare l’impatto dellincidente alla Horizon Deepwater: una ricerca che altri ricercatori interessati alla fuoriuscita potrebbe essere in grado di usare”, ha detto il dottor Siddhartha Mitra della Eastern Carolina University. “Inoltre, il nostro lavoro ha dimostrato che lo zooplancton nel Golfo del Messico settentrionale ha accumulato composti tossici derivati dal pozzo del Macondo”.
Il team di ricerca sostiene che l’impatto della marea nera della Deepwater Horizon si poteva riscontrare in alcuni zooplancton nel Golfo del Messico, anche un mese dopo che la fuoriuscita dal pozzo era stata chiusa. Inoltre, l’entità della contaminazione sembrava essere irregolare. Alcuni zooplancton in certi luoghi lontani dalla fuoriuscita mostravano segni di contaminazione, mentre zooplancton in altri luoghi, a volte vicino alla fuoriuscita, mostravano minori indicazioni di esposizione alle sostanze inquinanti derivate dal petrolio.
“Le tracce di petrolio nello zooplancton dimostrano che sono enrati in contatto con il petrolio e che quindi i composti dell’olio stiano risalendo la catena alimentare”, ha detto il dottor Michael Roman del Center for Environmental Science della University of Maryland .
Lo studio è stato pubblicato nel numero di febbraio di Geophysical Research Letters.